Perché l’uomo deve fare i conti con il dolore?
Nell’esperienza del dolore ci sentiamo feriti in ciò che per noi è vitale,
distruggendoci l’esistenza, stravolgendola, annientandola. Come suggerisce il
termine greco pathos, nel dolore siamo colpiti. Ci sentiamo privati di un
qualcosa che viene a noi sottratto, come la salute, una persona cara, l’uso di
una parte del corpo. Come nel caso di Giobbe, quando vede, in poco tempo,
cancellato quanto ha di più caro. E questo accade senza poterlo decidere,
controllare. Lo subisce. Passivamente. Può anche ribellarsi, ma si ritrova
inerte di fronte a quanto risulta a lui imponderabile e incomprensibile.
In questo senso il dolore è scandalo, perché riporta a una
dimensione di non-senso, all’abisso dell’uomo di fronte al limite. A una
barriera insuperabile, insormontabile. Segna l’esperienza notturna della vita.
Non a caso la città santa, la Gerusalemme celeste descritta nel libro
dell’Apocalisse, alla quale è destinato l’uomo alla fine dei tempi, è avvolta
da una luce perenne. La notte è scomparsa. Il dolore e il dramma dell’esistere
umano sono risolti nella beatitudine della contemplazione di un Dio che è luce.
Tutto qui si fa gioia, festa, pienezza di vita.
Tuttavia, il dolore è una dimensione ineliminabile della
vita. E il dolore schiaccia, opprime. È come un peso che impedisce di vivere.
Un fardello di cui ci si vorrebbe liberare. Il nostro corpo si trova separato
rispetto al mondo. Se, nel Fedone, Platone parla del corpo come di una
prigione, forse è per il motivo che all’uomo la sofferenza può risultare
intollerabile e insopportabile? Come dare senso a quanto si presenta come “non
senso”?
Con la mostra Al termine della notte si intende riflettere
sul lavoro di tre artisti per i quali il dolore costituisce una trama di fondo,
un filo rosso che tocca le dimensioni più intime dell’uomo. Non si offrono
soluzioni, ma esperienze.
Fino al 21 aprile, 16 - 19
La mostra resterà chiusa dal 27 marzo al 10 aprile