Ettore Frani, giovane artista di origine molisana, vincitore
del Premio San Fedele 2009/2010, è un artista che dipinge con pochi colori: il
bianco, il nero e il grigio. Nessuna concessione allo spettacolare, al
fantastico o al sensazionale. Le sue immagini appaiono come frammenti di un
dialogo interiore in cui, a partire da frasi bibliche o da episodi della vita
di Cristo, medita, riflette, sogna... In che modo si rivela il divino?
Attraverso frammenti ed enigmi. Frani non desidera mostrare qualcosa di evidente,
quanto piuttosto si propone di attraversare la superficie del mondo che ci
circonda per coglierne il suo significato intimo, interiore. Come quando Frani
indaga il tema del paesaggio. Non intende rappresentare qualcosa,
descrivere luoghi reale. Si propone di trasformarli in intime riflessioni che
lasciano emergere immagini di luce, frammenti di un dialogo col mondo che
assume le apparenze di un sogno. In alcune opere dipinte per la mostra del San
Fedele, Frani si ispira alla passione di Cristo. Tramite il frammento, cerca di
proseguire il suo lavoro sulla macchia e la traccia. Anche in questo caso,
nessuna narrazione. Frani suggerisce evoca, interpella. Come in Deposizione,
esposto in mostra. Un semplice lenzuolo. Tuttavia, non lo si vede nella sua
interezza, come nelle rappresentazioni antiche. Scorgiamo solo un frammento.
Tre fili scendono dall’alto e creano una leggerissima ombra sulla tela. Cosa
suggerisce? Senza mai apparire in maniera evidente, gli oggetti del nostro
mondo, i simboli del nostro passato si fanno sguardo ed emergono, come traccia,
fragili ed esili ombre. La realtà si offre come nei modi simbolici del sogno.
Oppure nel polittico composto da sette opere. Sono state suggerite dalle parole
di San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, 13, 12 “Poiché ora vediamo come in
uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in
parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto”.
Vediamo allora superfici riflettenti, in modo che la visione risulti filtrata.
Cosa lascia intravedere? Per Frani, si tratta di velare per rivelare, svelare.
Si vuole mostrare non qualcosa ma attraverso qualcosa… il divino
Per la mostra alla Galleria San Fedele, Susanna Pozzoli, che ha ricevuto la
menzione speciale dai giovani curatori, presenta una selezione di
immagini di quattro luoghi: una biblioteca, un ospedale, un aeroporto, un
teatro. Di quali luoghi, tuttavia, stiamo parlando?
Si tratta di alcuni spazi della città di Milano e dintorni che la giovane artista
interpreta come non-luoghi, nell’accezione di Marc Augé. L’opera vuole ricreare
un itinerario immaginario di un passante/fruitore. Non luoghi, colti in tutta
la loro capacità di sprigionare solitudine, assenza. È quindi una
riflessione/risonanza su architetture standardizzate, luoghi funzionali, di
passaggio, di fruizione. Luoghi della non-appartenenza. Vissuti nel silenzio,
portano, tuttavia i segni del passaggio di centinaia di persone, diventando
metafora di una vita transeunte, provvisoria. Si tratta dunque di un’esperienza
del nostro mondo, che rimanda, contemporaneamente, alla dimensione dell’eterno,
al senso ultimo della vita. Le architetture di teatri, ospedali, aeroporti,
negozi, cimiteri e biblioteche, avvolte nel silenzio e nella mancanza di vita
diventano paradossalmente cattedrali laiche, luoghi che inducono alla
riflessione, alla meditazione, a un profondo rispetto. Come quando vediamo le
fotografie di una chiesa, vuota e silenziosa, e restiamo immobili di fronte
all’imponenza dell’architettura. Sedie vuote e volte illuminate da fredde luci
al neon ci parlano tuttavia di vita.
Le fotografie saranno presentate come un’installazione. In questo modo, il
visitatore potrà relazionarsi alle fotografie che rievocano questi quattro
non-luoghi. Le fotografie, montate in quattro strutture circolari, saranno
sospese all’altezza dello sguardo dell’osservatore. Il visitatore potrà girare
intorno ad ognuno di questi cerchi, esplorando così il singolo non luogo.
Nel video di Alessandra Caccia, vincitrice del Premio Rigamonti, un processo di
riappropriazione della propria umanità, dopo le tragiche distruzioni avvenute
durante la Seconda Guerra Mondiale, è messo in atto, grazie alla testimonianza
di Ayako Kokuza, una sopravissuta della bomba atomica di Hiroshima. Dalle sue
parole emerge l’atrocità del dolore di un popolo, che diventa simbolo della
sofferenza di tutta l’umanità di fronte alla cecità della violenza.
Ayako è una hibakusha. In questo modo sono chiamati i sopravissuti alla bomba
atomica di Hiroshima e di Nagasaki. Gli hibakusha sono coloro che per primi
hanno sperimentato l’orrore di una bomba atomica. Vittime, dunque. Molti
sopravvissuti non hanno parlato della loro esperienza, per paura di essere
marginalizzati, discriminati, tenuti a distanza. Ayako, al contrario, decide di
parlare dopo vent’anni di silenzio. Vuole descrivere il non senso delle armi
nucleari e del modo col quale hanno ferito per sempre la sua pelle, il suo
corpo, la sua anima. Risorgendo da quell’inferno incarna in se stessa tutto il
tormento fisico, morale ed emotivo di quel sacrificio. Non si arresta di fronte
al proprio dolore, ma piena di speranza vuole portare salvezza e luce, anche
nell’oscurità più profonda. Le parole riemergono dall’angoscia, quasi come una
preghiera silenziosa, ricordandoci la preziosità e la sacralità della vita, che
per nessun motivo può essere ferita, nemmeno in tempo di guerra. Le risonanze
personali assumono qui il valore di una testimonianza che non può accettare
passivamente il silenzio, ma deve lottare nella storia per portare una parola
di pace.