regia di C. Eastwood, sceneggiatura di N. Schenk, fotografia T. Stern, Musica di K. Eastwood e M. Stevens, Montaggio di J. Cox, con C. Eastwood, 116 min., Warner Bros, USA 2008.
Un meccanico della Ford in pensione, Walt Kowalski, dopo la morte della moglie, resta solo con la cagna Daisy nel suo vecchio quartiere, invaso da immigranti. Walt non è mai stato vicino ai suoi figli, sposati e lontani, e detesta i nipoti adolescenti, come del resto tutto il mondo che lo circonda. In garage ha un’auto perfetta, una Gran Torino del 1972, che non usa da anni. Thao, un timido adolescente Hmong, viene costretto dal cugino Spider e dalla sua banda, come rito iniziatico, a rubare la Gran Torino. Walt lo sorprende e lo caccia. Poco dopo, salva sua sorella Sue da un’aggressione. Piano piano fa amicizia con i vicini, insegna a Thao lavoretti di manutenzione, gli trova un lavoro. Ma Spider continua a tormentare Thao: con la sua banda lo picchia e violenta Sue. Walt troverà un suo modo per liberare finalmente Thao e Sue dalla banda.
Eastwood: «Amo i dilemmi che Walt deve affrontare, il messaggio che manda all’America contemporanea. Kowalski è obsoleto, però impara cose nuove e questo lo rende un personaggio interessante. Lo metti di fronte a persone che sono suoi antagonisti e, davanti a uno specchio, improvvisamente prende coscienza di avere delle cose in comune con loro: molto più che con la sua dannata e marcia famiglia».
Scheda (de)genere
a cura di Andrea Lavagnini, Francesca Mazzini e Giuseppe Zito S.I.
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Introduzione
Gran Torino è un film in cui lo sguardo ha un ruolo molto importante. Porta anche il titolo di una macchina sportiva che però è sempre rimasta chiusa in garage o appena fuori, per essere guardata, ma mai usata. Vedrete come cambia lo sguardo dei personaggi nel corso del film e anche il nostro su di loro. L’invito è dunque a notare gli sguardi, i punti di vista, e come cambiano.
Elementi di senso
Nel finale si avvera inaspettatamente la banale omelia iniziale sulla vita e sulla morte di p. Janovich: la morte del protagonista sarà insieme amara per la perdita di un personaggio a cui abbiamo imparato a voler bene e dolce per la salvezza che porta.
Il film comincia e finisce con due funerali: prima quello della moglie di Walt, poi il suo. È un modo per dire che anche il film, incluso tra questi due elementi narrativi, cerca di dire cosa siano la vita e la morte. Dalla prima omelia funebre appare evidente che il giovane p. Janovich non sa niente né dell’una né dell’altra, mentre ben diversa sarà la seconda omelia funebre, resa carica di significato dalla vita di Walt che abbiamo visto trasformarsi nel corso del film.
Nella prima conversazione tra p. Janovich e Walt, quest’ultimo dimostra di sapere molto sulla morte (ne ha fatto una forte esperienza durante la guerra in Corea), ma ben poco sulla vita (ha semplicemente tirato avanti). Non a caso la macchina fuoriserie che lo rappresenta è sempre rimasta in garage, come la sua vita.
Il figlio di Walt dice che il padre vive ancora negli anni 50, gli anni della guerra in Corea. Walt ha vissuto tutto la sua vita come una guerra, armato fino ai denti, sulla difensiva.
Il mondo americano e il mondo Hmong vengono spesso giustapposti durante il film: il funerale americano e il “battesimo” Hmong; il solitario compleanno di Walt e la festa Hmong...
Una volta deciso di dare la vita per Thao, Walt supera la sua taccagneria: lascia la mancia al barbiere, si fa un bel vestito (con il quale morirà).
Appena prima del finale assistiamo ad una doppia confessione attraverso una grata: prima col prete in chiesa e con Thao. La prima formale, premeditata, la seconda fatta col cuore, spontanea, ma per questo più vera. Alle due confessioni segue anche una doppia penitenza (mentre sta per essere ucciso comincia a pregare la prima Ave Maria).
Walt non si fida delle istituzioni: della chiesa, dello stato, della polizia. Ha un senso patriottico e religioso, ma a modo suo. Alla fine del film sceglie comunque di affidarsi alle istituzioni: si confessa in chiesa e confida che la polizia farà giustizia. Rinuncia a farsi giustizia da sé (cosa non scontata per un cowboy).
All’inizio del film Walt vuole essere lasciato in pace, nel senso che non vuole relazioni con nessuno, se non con il suo cane. Alla fine del film vuole e ottiene che Thao e Sue siano lasciati in pace. Thao all’inizio del film cerca la sua identità come “uomo di casa”, che alla fine trova grazie a Walt.
Il giorno del suo compleanno Walt legge il suo oroscopo sul giornale, che gli preannuncia, anche se molto genericamente, ciò che sta per accadere. Segue poi un elenco di numeri fortunati. Walt non vi presta alcuna attenzione, ma quei numeri sono numeri molto importanti per Clint Eastwood, che in questo modo rivela la sua identificazione con Walt: 84 è l’anno in cui gli è nato il nipote Clinton. A 23 anni Clint ha scampato la guerra di Corea grazie a un incidente e ha cominciato a recitare. 11 è il numero di libre che pesava quando è nato. 78 sono i suoi anni durante la produzione di Gran Torino e 99... sono probabilmente gli anni a cui vuole arrivare.
La canzone finale, che accompagna il viaggio di Thao, è cantata da Clint stesso, che accompagna anche con la sua voce e non solo con la sua macchina il suo giovane amico.
Giudizi
Gran Torino è stato definito in molti modi dai critici: riportiamo qui di seguito alcune definizioni per dare l’idea di come possa cambiare lo sguardo degli spettatori sullo stesso film: melò intergenerazionale, romanzo di formazione, saggio sulla violenza, film sul razzismo, riflessione sulla decadenza della cultura americana, opera-testamento. È un “capolavoro di semplicità” o una “favola buonista”.
Certamente il film è molto semplice da un punto di vista stilistico, molto asciutto come movimenti di macchina, montaggio, scenografia; riprende lo stile classico di John Ford, uno dei maestri di Eastwood. Alcuni personaggi sono piuttosto stereotipati: i figli e i nipoti consumisti e superficiali di Walt, le varie etnie rappresentate secondo i più classici cliché. Eppure i personaggi principali vengono dipinti con tratti molto più fini e rompono gli schemi in cui sono inseriti: Walt, Sue, Thao. P. Janovich. Il finale è agrodolce, come spesso nei film di Eastwood, ma la soluzione e abbastanza scontata e forse troppo facile per essere credibile. Capolavoro di semplicità o favola buonista?
Il film è un “capolavoro di semplicità”: un vertice di creatività, equilibrio, armonia. Il protagonista, Walt, “svetta” sugli altri personaggi, ma, nel complesso, il film risulta corale, c’è armonia e semplicità nel modo in cui il regista parla del dolore e della violenza. Esperienze umane che toccano “selvaggiamente” il cuore dell’uomo sono riportate ai nostri occhi in maniera essenziale ed equilibrata.
È un film triste, sconsolato: un film in cui tutto è segnato. Valgono le parole di Sue: le ragazze hmong vanno al college, i ragazzi in galera. È un film anche sull’amore paterno, un amore efficace ma limitato: perché pur essendo la Gran Torino segno di un destino speciale, l’America vive la disperazione della separazione e della lotta fra i differenti gruppi etnici.
È un film americano. Profondamente americano. Americano in due direzioni contrapposte e, al contempo convergenti. Walt trova il senso, le ragioni della sua vita prima nella guerra in Corea, nella rievocazione della guerra di Corea, e, poi, nella scelta radicale di rifiutare le armi. La tradizione americana non sta tanto nella continuità con il passato ma nel melange e nel rinnovamento, incarnato dal sacrificio di Walt. La macchina Gran Torino è il testimone lasciato dall’America a nuove generazioni di immigrati.
Il nostro sguardo, seguendo Walt, ha fatto un cammino spirituale dalla morte alla vita.
La frase pronunciata da Walt “ho più cose in comune con questi musi gialli che con la mia famiglia” è una sintesi della prospettiva offerta dal film: non è tanto questione di appartenenza etnica e culturale quanto piuttosto di “comunione” del modo di pensare e sentire.
La tradizione americana viene rinnovata dalla presenza della comunità Hmong.
In questo film Clint opera un rovesciamento del personaggio Callaghan… Clint si libera da se stesso.
In questo film c’è il retaggio del genere western. John Wayne de Il Pistolero è proiettato nella costruzione e nella decostruzione di Walt.
È un film positivo perché parla di redenzione. Raccoglie il buono che c’è nel mondo. Quando Thao guida la Gran Torino con a fianco Daisy, la cagnetta labrador che, paziente e silenziosa, ha accompagnato Walt nella sua solitudine, sembra reduplicare l’immagine dell’arca di Noè, un’arca della salvezza che appunto raccoglie e “salva” la bontà del mondo, delle cose, delle relazioni.
È un film che invita a riflettere sul ruolo delle donne. Le donne accompagnano il cammino di redenzione fatto da Walt. In particolare la figura della moglie risulta sempre una presenza efficace nell’economia narrativa della pellicola: prima mette “alle calcagna” di Walt il pretino (“la morte è dolce nel cammino verso la salvazione”) e poi viene evocata da Walt nei suoi racconti per dire quanto l’amore sia un’esperienza fondamentale nella crescita, nella formazione, di un uomo: Thao deve innamorarsi e conquistare la “donna della sua vita” “Yam-Yam”, perché anche l’amore è un viaggio verso la salvezza.