Un film di Michael Haneke. Con Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Burghart Klaußner. Titolo originale Das Weiße Band. Drammatico, b/n durata 144 min. - Austria, Francia, Germania 2009
«Il mio film - sostiene Haneke - tratta di una questione universale, di una questione che si ripresenta a ogni “trasmissione” di valori da una generazione all’altra». Scritto con l’ampiezza narrativa di un grande romanzo novecentesco, Il nastro bianco intreccia vicende famigliari e collettive. Sullo sfondo c’è la chiusura di un mondo contadino e maschile. Le sue relazioni non corrono da individuo a individuo, ma da ruolo a ruolo. Oltre al Barone, e al di sotto del suo “prepotere”, ci sono il Pastore, l’Intendente, il Medico, il Maestro. Poi, ancora più sotto, ci sono i contadini. Tutti questi ruoli formano un corpo, un organismo percorso dallo stesso sangue. Ossia: legato e mosso da principi e valori che convergono verso il mantenimento del potere del Barone e, insieme, della vita dell’organismo. Lo stesso accade in una dimensione più ridotta, nelle singole famiglie. Anche lì, nelle relazioni fra uomini e donne e fra adulti e bambini, conta e domina non l’individuo ma il ruolo: quelli di padre e di marito sopra ogni altro. Con i suoi riti e le sue preghiere, la chiesa è infine il luogo in cui la comunità celebra e conferma la propria legittimità e la propria giustizia.
Non c’è rivolta, in un tale organismo chiuso. Non solo ribellarsi è reso impossibile dalla dipendenza economica dei deboli, dal controllo continuo esercitato dal Barone e dai suoi immediati sottoposti, dalla chiusura anche spaziale del villaggio, tutto costruito attorno alla villa del suo signore. La rivolta è esclusa già nelle teste dei deboli. In quelle loro teste domina una “storia” che è stata raccontata a lungo, di generazione in generazione: una storia di sottomissione giustificata da dio, e densa di certezze. Per di più, quella storia pubblica è stata raddoppiata e moltiplicata nelle storie private. Il prepotere del Barone vale appunto come specchio, modello e legittimazione del prepotere di ogni marito e di ogni padre.
Una tale struttura di dominio e obbedienza – ecco la «questione universale» cui si riferisce Haneke –,una tale struttura, dunque, ha bisogno di una religiosità crudele e fanatica, di verità indiscutibili, di principi assoluti. Insomma, ha bisogno di colpa. A questo, alla colpa, provvede il Pastore. Lo fa in buona, in ottima coscienza. Egli stesso prodotto della storia che racconta, non ha dubbi: essere buoni cristiani significa caricare su di sé il peso d’un continuo rifiuto di ogni slancio, di ogni desiderio, di ogni libertà. Occorre essere puri: di questa sua ossessione fa l’arma con cui tormenta gli altri, primi fra tutti i suoi figli. «Signor padre», così essi lo chiamano (con i loro padri, ricchi o miserabili, lo stesso fanno tutti i figli del villaggio). E quando lui li obbliga a portare fra i capelli o al braccio un nastro bianco – bianco come la purezza fanatica che son chiamati a raggiungere –, nelle loro teste e nei loro cuori non nasce alcuna volontà di rivolta. Gravati e vinti dalla colpa, certi d’essere in dovere di mutilarsi d’ogni slancio, desiderio e libertà, si consegnano ancora di più al loro carnefice, e alla crudeltà della sua storia.
Come saranno da adulti i ragazzini e le ragazzine di Il nastro bianco? Saranno almeno come i loro padri: o malati della malattia del Pastore, o prepotenti come il Barone, o ipocriti come il Medico. Ma potranno anche essere peggio. Potranno trasformare le cicatrici lasciate nei loro cuori e nelle loro teste dalla Kindergeschichte , dal racconto “educativo” di verità assolute, in strumenti d’una crudeltà ancor più fanatica. Già pare abbiano iniziato, pagando essi stessi – e facendo pagare – le colpe dei padri.
R. Escobar, Il Sole 24-Ore, 11 novembre 2009
Perché proprio questo film?
Haneke: «È un progetto al quale stavo lavorando da oltre dieci anni. Il mio obiettivo principale era di presentare un gruppo di bambini ai quali vengono inculcati degli ideali considerati assoluti, e il modo in cui li assimilano [Il sottotitolo originale significa: «Una storia tedesca per bambini»]. Se si considera assoluto un principio o un ideale, che sia politico o religioso, questo perde umanità e porta al terrorismo. Avevo pensato, come titolo alternativo, a "La mano destra di Dio" perché i bambini del film applicano alla lettera questi ideali e puniscono quelli che non li condividono al 100 %. Il film non tratta solo di fascismo - un'interpretazione fin troppo semplice visto che il racconto è ambientato in Germania - ma di un modello e del problema universale dell'ideale deviato».
Perché ha girato in bianco e nero?
«Tutte le immagini che conosciamo della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo sono in bianco e nero perché i media esistevano (fotografia, giornali), mentre del XVIII secolo, ad esempio, abbiamo una percezione a colori veicolata dai quadri e dai film che abbiamo visto. Adoro il bianco e nero e ho colto al volo questa occasione. Mi ha permesso anche, così come l'utilizzo di un narratore, di dare un effetto di distanziamento. Quello che conta è trovare una rappresentazione adeguata del proprio soggetto».
La violenza e il senso di colpa sono di nuovo al centro del suo lavoro?
«Tratto questi soggetti in tutti i miei film. Nella nostra società, la questione della violenza è inevitabile. Quanto al senso di colpa, sono cresciuto in un universo giudeo-cristiano dove questo tema è onnipresente. Non è necessario essere cattivi per diventare colpevoli: fa parte del nostro quotidiano».
Il nastro bianco conta un gran numero di personaggi. Come ha scelto e diretto tutti questi attori?
«Per il cast, ho scelto volti che somigliassero alle foto dell'epoca. In sei mesi, abbiamo visto oltre 7000 bambini. E il compito era importante perché ovviamente non era l'aspetto fisico che doveva prevalere, bensì il talento. Per gli adulti, ho scelto attori con cui avevo già lavorato e altri di cui conoscevo il lavoro. Quanto alla direzione degli attori, mi limito a segnalare loro se c'è qualcosa che non mi suona bene. Se il cast è buono, il personaggio funziona».
La trama pone più domande che risposte.
«Non c'è niente da spiegare. Il mio principio è sempre stato quello di porre domande, di presentare situazioni ben precise e di raccontare una storia affinché lo spettatore possa cercare da sé le risposte. Secondo me, l'inverso è controproducente, gli spettatori non sono mica colleghi del regista. Mi impegno molto per raggiungere questo risultato. Credo che l'arte debba porre domande e non proporre risposte, le quali sono sempre sospette, a volte persino pericolose».
Fabien Lemercier, cineuropa.org
Scheda (de)genere
a cura di Andrea Lavagnini, Francesca Mazzini e Giuseppe Zito S.I.
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Introduzione
Non è un film facile e non concede molto allo spettatore. È costruito come un giallo, con una serie di eventi misteriosi che si dispiegano, ma alla fine il mistero non è svelato, privando il pubblico del piacere principale del giallo.
Anche la bellissima fotografia di Christian Berger viene privata dei colori, facendole così certamente guadagnare in eleganza, ma non certo in immediatezza.
Anche il piacere narrativo dell’identificazione è ridotto al minimo dalla molteplicità di fili narrativi e dal finale sospeso anche per il protagonista: il maestro.
Veniamo infine privati del piacere della musica, essendo il film privo di qualunque commento musicale.
Quali piaceri restano? Perché possiamo dire che un film così è “bello” e meritava di vincere il più prestigioso festival di cinema al mondo? Di certo non va guardato come si guarda un blockbuster, ma richiede molto dallo spettatore.
Veramente il regista pone solo domande e non propone risposte, come ha detto nell’intervista sopra riportata?
Elementi di senso
Un primo simbolo, il cui senso viene ribadito più volte, è anche quello che dà il nome al film: il nastro bianco, monito di purezza e innocenza, legato al braccio o ai capelli dei bambini per ricordare loro come comportarsi. Colpa e innocenza si annunciano come due temi centrali nel film.
La voce del narratore, che poi è quella del maestro da anziano, esordisce spiegando i motivi del suo racconto: la ricerca della verità riguardo ai processi maturati nel paese (leggi “nazismo”). Ciò che è avvenuto nel piccolo villaggio è importante per capire ciò che di lì a vent’anni sarebbe successo.
I personaggi del film sono definiti non dal loro nome, ma dal ruolo: il dottore, il maestro, l’intendente, il barone, il bracciante, la levatrice, etc. Solo i bambini hanno un nome, ancora.
Il film sottolinea in molti modi la disumanità di quel sistema educativo, repressivo, punitivo, basato sul senso di colpa, su valori, verità e strutture rigide e immutabili.
Anche la violenza è un tema centrale nel film. Haneke non si compiace mai nel mostrarla esplicitamente. L’unica immagine forte è il volto insanguinato di Karli. La scena davanti alla quale il regista ci chiude gli occhi, facendocela solo immaginare con i suoni, è quella dei colpi di verga ricevuti dai figli del pastore. La porta chiusa è un modo per sottolineare ciò che si svolge al di là, affermandone allo stesso tempo l’intima bruttura, che il regista non vuole mostrare direttamente.
Figli come uccellini in gabbia?
In effetti il film non chiarisce chi siano i colpevoli dei crimini consumatisi nel villaggio. Certamente i bambini, che di lì a pochi anni diventeranno adulti nazisti, sono implicati, ma lo sono anche alcuni adulti, quasi tutti. Il colpevole, sembra dire il film, è forse proprio un sistema sociale ed educativo aberrante. Anche la figura della levatrice, madre di Karli, intenzionata ad andare alla polizia per denunciare il colpevole dei crimini, non torna più. È stata lei a commettere almeno alcuni dei crimini? Ha finito per suicidarsi davvero, come aveva minacciato, dopo aver ucciso il figlio? Il film non dà risposte. Certo è che i ruoli di vittima e carnefice si confondono e si intrecciano.
Nel villaggio e nelle famiglie vige inoltre un clima di fortissima omertà. Nessuno è disposto a denunciare i proprio crimini, piuttosto è disposto a essere picchiato (come il figlio dell’intendente), o a negare l’evidenza (come il pastore e i suoi figli). I crimini restano invisibili, soprattutto a chi li commette, proprio come è successo col nazismo. Senza quell’invisibilità, quell’omertà interna alla coscienza, non sarebbero mai potuti accadere. Avviene come una dissociazione interna alla persona, che pure resta sana di mente, ma è capace di atrocità inaspettate. E si tratta sempre di persone rispettabili, di buona famiglia. Anche oggi assistiamo alle cronache di massacri familiari, mostruosità varie, e i responsabili sono sempre descritti da amici e conoscenti “persone normali, bravi vicini di casa”. Allora forse dentro ciascuno di noi si cela un simile mostro? Il nazismo è solo una manifestazione più appariscente di qualcosa di profondamente diffuso? Si può evitare, guarire?
I personaggi positivi del film sono pochi: Eva, il maestro, ma forse anche la famiglia di Eva e in particolare il padre, capace di un’attenzione autentica al bene della figlia.
Da notare l’immagine della levatrice che alla fine del film esce in bicicletta dal villaggio, la cui porta sembra l’ingresso di Auschwitz.
Giudizi
Fine riflessione storica e psicologica sul male o raffinata espressione di decadenza e pessimismo depressivo?