Sicilia, anni Ottanta. È guerra aperta fra le cosche mafiose: i Corleonesi, capitanati da Totò Riina, sono intenti a far fuori le vecchie famiglie. Mentre il numero dei morti ammazzati sale come un contatore impazzito, Tommaso Buscetta, capo della Cosa Nostra vecchio stile, è rifugiato in Brasile, dove la polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano. Ad aspettarlo c'è il giudice Giovanni Falcone che vuole da lui una testimonianza indispensabile per smontare l'apparato criminale mafioso. E Buscetta decide di diventare "la prima gola profonda della mafia". Il suo diretto avversario (almeno fino alla strage di Capaci) non è però Riina ma Pippo Calò, che è "passato al nemico" e non ha protetto i figli di Don Masino durante la sua assenza: è lui, secondo Buscetta, il vero traditore di questa storia di crimine e coscienza che ha segnato la Storia d'Italia e resta un dilemma etico senza univoca soluzione.
Commenti del pubblico
VOTO: ottimo
L'eccellente interpretazione del personaggio di Tommaso Buscetta da parte di Pierfrancesco Savino è la spina dorsale del film. Si tratta di una grande prova di attore, capace di dare personalità, spessore, dignità ad un boss di Cosa Nostra che, collaborando con il giudice Falcone diventa il protagonista e il garante della condanna di molti capi mafia. Meno riuscita la parte in cui si tratta del processo a Giulio Andreotti.
Positiva la scelta del regista di mantenersi aderente ai fatti narrati con poche incursioni nell'onirico.
Caterina Parmigiani
VOTO: da premio
Lasciarsi cambiare, convertirsi non è facile per nessuno, come dice Bellocchio all'inizio del film. Ci viene narrato in un affresco di insieme tutta la vicenda della collaborazione di Buscetta e del maxiprocesso nell'aula bunker. Ho naturalmente vissuto quegli anni, quei giorni di resoconti al telegiornale, la vicenda di Andreotti, lo stato, la mafia, Falcone... Tutto però è nella memoria un po' frammentato. Qui il regista ha fatto un'opera di sintesi, senza però perdere la ricchezza del particolare. Molto è stato reinterpretato per sottolineare una certa lettura dei fenomeni e inoltre non mancano accenni surreali del Bellocchio più consueto. Non siamo solo di fronte ad un'opera giornalistica e neppure di analisi del tema della mafia. Siamo dentro una riflessione, dentro uno sguardo pensoso che ci fa capire quanto sia difficile trovare una strada, un vero senso nella vita quando l'unico che ti è stato proposto salta. Salta una tipologia di un modello negativo, quella che contempla, pur nell'orrore, il rispetto per i bambini, le donne, l'amicizia, ma risulta durissimo il passaggio al modello positivo vero e proprio, la cesura netta col passato. Un insegnamento anche per noi "normali"...
Andrea Florio
VOTO: da premio
L'uso sapiente del colore di Marco Bellocchio con forti contrasti e il predominio di un nero lucido da cinema-verità, rappresenta le contraddizioni di un “uomo d’onore” che, nato in una famiglia di Cosa Nostra (il regista, alla fine del film, in uno dei tanti flash-back che punteggiano la storia, ci ricorda che anch’egli è stato uno spietato assassino) rifiutò l’imbarbarimento della mafia siciliana per l’orrore delle uccisioni di familiari e soprattutto di bambini innocenti, tanto da diventare collaboratore di giustizia all’interno dell’operazione antimafia del giudice Giovanni Falcone. La
saudade della canzone
É la Historia de un amor che accompagna il film costituisce un
leit-motiv che mette in contraddizione l’aspetto romantico di un uomo che esprime la nostalgia di un mondo che non c’è più senza rendersi conto che non avrebbe mai dovuto esserci. Perfetta è la notazione che riguarda Giulio Andreotti che, con l'aiuto del suo scaltro avvocato, è l’unico a mettere in difficoltà il testimone Buscetta.
Il film mantiene un raro equilibrio, grazie anche alla perfetta interpretazione di Pierfrancesco Favino.
Anna Piccinini
VOTO: ottimo
Menzione per l'interpretazione.
L'inizio del film è... folgorante. Le vecchie famiglie ed i Corleonesi di Totò Riina sono riunite e festeggiano rumorosamente Santa Rosalia. È la vigilia di uno spietato sterminio. Mi è venuto in mente lo stile di Coppola, con le sue immagini private piene di forza e di sottintesi. Spaventano ed addolorano le non poche scene cruente, inevitabilmente indigna la gioia di alcuni per la morte di Falcone. Il “maxi-processo” rappresenta il fulcro della narrazione di Bellocchio; il suo sguardo è acuto, indagatore, scruta in primo piano occhi, espressioni, stati d’animo. Sottolinea rancori, disappunti, falsità, mezze verità. Sospendo ancora una volta il mio giudizio sull’uomo Buscetta. In ogni caso l’interpretazione di Favino è grande, stupefacente, meglio di un eventuale De Niro, direi. “Io sono stato e resto un uomo d’onore. Io non mi considero un pentito”.
Alessandra Casnaghi
VOTO: da premio
Avvince anche chi non ama storie di mafia il film di Bellocchio, certo per la sapienza del regista, per i costanti primi e primissimi piani degli interpreti, e in primo luogo dell'attore protagonista, con l'obiettivo puntato a scrutare i volti come volesse cogliere l'animo, la verità più profonda, la coerenza o la contraddizione con le parole appena pronunciate. Bellocchio indaga storie di "famiglia", questa volta quella mafiosa di "Cosa Nostra", rigorosamente strutturata nel crimine, che esige dai suoi "affiliati" totale fedeltà e obbedienza, e quella di uno di loro, Tommaso Buscetta, di cui segue le vicende dall'arresto in Brasile all'incontro con il giudice Falcone e ai grandi processi successivi, che non si dichiarò mai né "pentito" né traditore di quell'organizzazione. Se la prima "famiglia" è quella violenta, che punisce, di cui, secondo cliché, sono mostrate le esecuzioni dei "colpevoli", le efferatezze, gli agguati mortali, i delitti trasversali, quella di Buscetta è la famiglia "non colpevole", che deve essere protetta, messa al sicuro, a costo di ripetute fughe e di rese alla giustizia. Lo tormenta in particolare il ricordo dei due figli adulti lasciati a Palermo e ammazzati per vendetta contro di lui: si sente colpevole per non averli costretti a seguirlo e soprattutto per non aver dato loro - negando la conoscenza di dove lui si trovasse - la "libertà di tradirlo", lui che quella libertà se l'era presa nei confronti di "Cosa Nostra". L'ossessione della protezione della famiglia lo accompagna fino alla morte: di notte, armato, pur malato, sorveglia i dintorni della casa dove riposano i suoi.
Si basa su "fatti realmente accaduti" il film di Bellocchio e, a riprova, inserisce spezzoni di riprese autentiche, ma è la lettura particolare della complessa vita di un uomo che confessa con una canzone che la sua è stata storia di amore, mentre l'ultima sequenza ci consegna l'esecuzione, più volte rinviata, di un padre che non ha più la difesa del figlio.
Miriam Mazzoleni
VOTO: ottimo
Interpretazione magistrale di Favino, attore protagonista di un film che ricalca le gesta mafiose, ma si distingue per l'originalità.
Chiara Ghioni
VOTO: da premio
Il film è basato su fatti della storia italiana recente. Dopo una sontuosa quanto ipocrita festa di pace tra famiglie rivali di Cosa Nostra, gli storici palermitani e i Corleonesi emergenti, si scatena una cruenta guerra di mafia per il predominio nel traffico di stupefacenti. Prevedendo che la pace sarebbe stata solo fittizia, il boss palermitano Tommaso Buscetta si trasferisce in Brasile con l'ultima moglie e da lontano assiste all'escalation di violenza e di crimini efferati, che lo toccano anche molto da vicino. Quando viene catturato ed estradato in Italia, affidato agli interrogatori del giudice Giovanni Falcone, Buscetta decide di vendicarsi dei suoi avversari e diventa il primo collaboratore di giustizia, permettendo con le sue rivelazioni la cattura di molti personaggi al vertice di Cosa Nostra, che verrà così drasticamente ridimensionata. Figura controversa, infame-eroe, con alle spalle un passato di omicidi e attività illegali, Buscetta si riscatta per la coraggiosa decisione di passare all'altro fronte e di collaborare con la giustizia. Non un tradimento, sosterrà fino alla fine, perché lui si ritiene sempre un uomo d'onore: sono gli altri, i suoi avversari, che con la loro efferatezza “hanno tradito gli ideali di Cosa Nostra”. Ritratto anche psicologico di un uomo che, pur sotto protezione, si sentirà per sempre braccato, consapevole con la sua decisione di aver messo in pericolo anche tutta la sua famiglia, ma che trova nel rapporto di fiducia che si è instaurato col giudice Giovanni Falcone una motivazione in più per andare avanti fino in fondo.
Lucia Donelli
VOTO: da premio
Assente da Milano, non ho assistito alla proiezione del film, che avevo già visto, ma ero presente alla discussione e al voto in sala. Scrivo a conferma della mia valutazione e segnalare, se d'interesse, un passo utile per mettere a fuoco la cultura di mafia in Italia, tratto da un libro di Jacques De Saint Victor, storico del diritto e delle idee politiche all'Université Paris-VIII e visiting professor all'Università Roma-III, pubblicato nel 2012 e tradotto in Italia da UTET nel 2013 col titolo
Patti scellerati. Una storia politica delle mafie in Europa. A p. 336: «Se vogliamo credere ai sondaggi, il Paese, spossato da tanti anni di corruzione, [nelle elezioni politiche del 1994] sembrava disposto ad affidarsi agli eredi di un rinnovato eurocomunismo. Cosa Nostra dovette sentirsi così isolata che, come nel 1943, accarezzò l'idea di creare un proprio partito politico. Era incoraggiata in tal senso dalle nuove logiche separatiste che stavano trovando ampia diffusione nel Nord della penisola. La Lega lombarda auspicava un'Italia federale, divisa in tre zone, intendendo implicitamente che quella meridionale sarebbe stata affidata alla mafia. Un intellettuale della Lega, il professor Gianfranco Miglio, un accademico milanese che aveva contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Carl Schmitt, si dichiarava apertamente favorevole al “mantenimento della mafia e della ‘ndrangheta al Sud”, precisando sibillinamente: “Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. Esiste anche un clientelismo buono, che può determinare la crescita economica”». È un articolo di Miglio su
Il Giornale del 20 marzo 1999: «Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica».
Giuseppe Gario