Oro verde

C'era una volta in Colombia
San Fedele 1
Auditorium San Fedele 16 gennaio 2020, ore 15.15 e 20.45
Regia di Cristina Gallego, Ciro Guerra
Alla fine degli anni Sessanta, in Colombia, nella regione settentrionale abitata dagli indiani Wayuu, che ancora vivono di pastorizia e coltivazione della terra, l'ambizioso Rapayet sposa la giovane Zaida. In poco tempo, il ragazzo convince delle proprie capacità imprenditoriali i capiclan e avvia un fiorente commercio di marijuana verso gli Stati Uniti alleandosi per interesse con una famiglia rivale. La ricchezza derivante dal narcotraffico modifica radicalmente lo stile di vita della comunità di Rapayer e conduce nel corso degli anni Settanta a uno scontro fratricida con gli alleati, che verrà combattuto cercando di rispettare usi e tradizioni di un mondo in via di sparizione.



Commenti del pubblico

VOTO: buono
Si misura in cinque tempi il passaggio da una cultura arcaica all'avvento della droga come valore superiore capace di distruggere antichi riti, abitudini considerate stili di vita, scelte mai messe in discussione finché a regolarne il potere erano i vecchi, i capoclan, i responsabili della famiglia. A far crollare il fragile equilibrio che tiene insieme continuità e tradizione è la necessità di provvedere alla dote richiesta per poter sposare la ragazza di cui il giovane Raphayet si è innamorato. Capre, mucche e collane, i beni da portare a Zaida richiedono molti soldi e l’unico modo per procurarseli è vendere marijuana agli hippie americani che ne cercano sempre di più. L’erba c’è, la si coltiva sulle colline e Raphayet diventa l’anello di una catena che lo porterà ad essere un ricco e potente narcotrafficante. Ma i veri valori in quella comunità sono altri e non si dimenticano mai. 
La memoria degli antichi, il richiamo alla voce del sogno, la presenza degli uccelli che appaiono a ricordare segni premonitori, la consapevolezza dei messaggi da attribuire agli spiriti sono momenti che recuperano la forza della tradizione e sembrano annullare i giochi di potere che hanno segnato all'nterno di una famiglia morte e distruzione. Una difficile convivenza tra tradizione e antropologia.
Trent’anni dopo dall’inizio di questa storia, il progresso del mondo occidentale ha avuto la meglio.
Luisa Maria Alberini

VOTO: buono        
Menzione per le interpretazioni.
Inaspettatamente un popolo che vive di pastorizia e coltivazione della terra, passa da questa economia arcaica ad una di tipo capitalistico. È la sua disgregazione, è il radicale cambiamento dello stile di vita di questa comunità. È strano dover considerare che dove la Storia non ha potuto quasi nulla, il denaro ha invece creato odio e violenza. Ma l’osservazione che più di altre mi ha suscitato riguarda le tradizioni, tramandate dagli anziani: proprio quando la violenza allontana questi giovani dalle proprie radici, gli anziani delle tribù li costringono a rispettare le vecchie regole e le virtù tradizionali. La parte iniziale del film mi è parsa eccessivamente lenta, sebbene proprio quel ritmo intenda forse rappresentare i cicli secolari che scandiscono la vita di questi indios. Poi Oro verde cambia il passo e si trasforma quasi in un action americano. Ottime, quasi corali, le interpretazioni, prima fra tutte quella di Ursula, quasi un personaggio della mitologia greca. "Le tue azioni dovranno confermare le tue parole".
Alessandra Casnaghi

VOTO: ottimo
È molto efficace Oro verde nel dimostrare come elementi di una cultura estranea si inseriscano quasi impercettibilmente in quella radicata in un altro paese, la stravolgano e modifichino l'agire di uomini inconsapevoli del processo che avviano. La sceneggiatura sembra avere intenti didattici, è esemplificativa, suddivisa in cinque capitoli che collocano le vicende cronologicamente ordinate (dalla fine anni Sessanta in poi) in luoghi ben definiti (nella Colombia nord-ovest), e prende l'avvio da una festa popolare wayuu, dalla danza di una giovane donna il cui pretendente deve fornire alla famiglia di lei una ricca dote in animali domestici, tradizionale garanzia di sostentamento per la famiglia. E che per tale scopo il giovane cerchi acquirenti stranieri e avvii un commercio di marijuana pare un proposito quasi "innocente". Ma non è così: anche il libero mercato ha regole a cui non si può derogare pena "la vita", il rispetto della quale per primo viene meno, mascherato dietro "l'onore", in realtà il potere economico, del clan. E così dall'omicidio di un amico fraterno si arriva alle imboscate nei viottoli di campagna e alle stragi, prima "artigianalmente" compiute, poi scientificamente programmate da sicari stranieri con armi sempre più potenti. E l'unico che pare rendersi conto di dove dopo decenni ha condotto il lucroso commercio dell'"oro verde" è il giovane delle prime sequenze che, per salvare la sua "famiglia", intesa questa volta come la vita della moglie e dei figli, è disposto a cedere "tutto", la ricchezza accumulata, l'assurdo status symbol della casa/cattedrale nel deserto, per ritornare alla capanna dell'inizio dell'avventura. Inutilmente.
Sconvolge il film di Guerra e Gallego, è potente forse proprio per la linearità del discorso che disegna realisticamente il dramma che sfocia ineluttabilmente nella catastrofe.  
Miriam Mazzoleni

VOTO: ottimo
Il capitalismo e la sete di potere attraverso il commercio della droga, riescono ad annientare l'emblema, i valori e le tradizioni di una tribù indigena colombiana. È molto triste vedere che non è sufficiente perdere la propria storica identità; occorre una vendetta assoluta che sporca tutto di sangue e fa tornare al "nulla". Ottima la regia, la fotografia e la recitazione anche dei non professionisti.
Chiara Ghioni

VOTO: da premio
Film importante che scava nella storia, nell'antropologia e nel mondo onirico per denunciare le sofferenze, il dolore, la corruzione, e la morte come esiti del neocapitalismo.
Francesco Maisto