Genere:Documentario
Durata:105'
Biglietto:€ 5.00

Taxi to the dark side

San Fedele 3
Auditorium 30/10/2009 20.30

un film di Alex Gibney, Documentario, 106’ - USA 2007

 

Jigsaw Productions
Lungometraggio
2007
Usa

Dicembre 2002 un taxista afgano, Dilawar viene portato alla base dell’Air Force statunitense con l’accusa di essere coinvolto in un attentato terroristico. Cinque giorni più tardi morirà. Le sue gambe sono ridotte in uno stato per cui, se fosse sopravvissuto, avrebbero dovuto essere amputate. È a partire da questo episodio che Alex Gibney, autore del documentario Enron - L’economia della truffa, affronta con sguardo che non può essere accusato di antiamericanismo (essendo il film made in Usa) il tema della violazione dei diritti umani da parte dell’Amministrazione Bush.

Il documentario, ricco di testimonianze americane e supportato da immagini che dimostrano l’efferatezza dei trattamenti smonta una delle tesi guida di Bush, Cheney e Rumsfeld. Dinanzi alle torture e alle umiliazioni inflitte nel carcere di Abu Ghraib che sollevarono un’ondata di indignazione in tutto il mondo che ancora vorrebbe dare un significato alla parola ‘civile’, la risposta fu ben precisa. Si tratta di mele marce che verranno severamente punite. Gibney dimostra che non era così, che i metodi di interrogatorio con corpi sospesi per lunghissimo tempo in aria (tanto per fare un esempio) non erano frutto della mente perversa di qualche militare deviato. Facevano parte di una strategia da applicarsi non solo a Guantanamo (altro luogo di cui Obama ha ordinato la chiusura) ma ovunque.

Chi prenderà questo taxi cinematografico (anche se giunge sui nostri schermi con un anno di ritardo) sentirà che è ancora possibile un cinema che (senza l’esigenza di spettacolarizzazione propria di un Michael Moore) adempia a un compito di ricerca della verita’ libero da vincoli di appartenenza politico-ideologica e, proprio per questo, capace di comunicare che parole come dignita’ e diritti umani non risuonano a vuoto.

 

Un viaggio senza ritorno nel «lato oscuro». Taxi to the dark side, di Alex Gibney, è un documentario (premiato con l’Oscar)che descrive la sporca guerra, quella combattuta contro il terrorismo dopo gli attacchi dell’11 settembre. Una lotta sia in campo aperto, sia lontano dagli occhi delle telecamere: rapporti dell’intelligence, spiee controspie, raffinati strumenti tecnologici. Ma anche, purtroppo, il terribile e tragico ritorno all’impiego di mezzi ripugnanti, in primo luogo la tortura. Fino a che punto è lecito spingersi per ottenere informazioni vitali alla sicurezza? Quali pressioni psicologiche e fisiche possono essere definite “accettabili” e quali invece superano il confine oltre il quale si cade nella disumanità?

Partendo dal caso di un taxista afghano finito per caso nel carcere di Bagram, e qui ucciso a furia di calci e privazioni, Gibney si inabissa nel “lato oscuro”, chiedendo allo spettatore di non chiudere gli occhi. Dedica il film al padre, soldato americano fiero di esserlo stato: perché, dice, quando si combatte per dei principi, non bisogna mai negarli con la propria condotta.

Luigi Paini, Il Sole-24 Ore, 31 maggio 2009

 

 

Scheda (de)genere

a cura di Andrea Lavagnini, Francesca Mazzini e Giuseppe Zito S.I.

invia le tue integrazioni a sf3@sanfedele.net

 

Introduzione al film

Un altro documentario, ma molto diverso da quello di venerdì scorso: poca spettacolarizzazione, niente tecniche innovative, molta ricerca d’archivio. La voce narrante, peraltro ridotta al minimo, è dello stesso Gibney, già autore di un documentario sul caso Enron, che non ebbe un successo neanche paragonabile a questo.

Il film è uscito negli USA quando Bush era ancora presidente e ha vinto il premio Oscar come miglior documentario nel 2009. In Italia è arrivato solo lo scorso maggio e come si potrà immaginare è rimasto molto poco nelle sale.

Proviamo come al solito a cogliere le scelte artistiche dell’autore (in questo caso è veramente uno solo). Mettendole poi insieme nel dibattito proveremo a cogliere i vari livelli di senso dell’opera.

 

Elementi di senso

Si parte dal particolare del caso concreto di Dilawar per arrivare all’universale della costituzione americana e dei diritti dell’uomo.

La prima difesa invocata dalle autorità coinvolte è che si tratta di “mele marce”. Interessante che si tratti della stessa frase usata in Italia nei giorni scorsi circa il caso Marrazzo. Sembrano problemi lontani dal nostro mondo, ma proprio in questi giorni c’è stato il caso del ragazzo morto al Regina Coeli a causa di maltrattamenti.

Interessante notare come i soldati responsabili materiali dei maltrattamenti vengono dipinti inizialmente come carnefici e alla fine del film come vittime. I veri responsabili sono più in alto, molto in alto, ma non sono stati puniti, né svergognati.

Il film è visivamente molto ripetitivo, quasi ossessivo. Sebbene sia un film che tratti di violenza, non ci sono immagini violente. Disturbanti sì, ma non violente per come in genere intendiamo questo termine (violenza fisica). In effetti si tratta di un documentario su una forma molto particolare di violenza, quella psicologica. Le torture cui erano sottoposti i prigionieri al fine di estorcere informazioni erano appunto violenza psicologica (umiliazione, privazione sensoriale, privazione del sonno, etc.). Il film ci fa entrare in questo mondo al confine della follia e ce ne comunica almeno parte del disagio.

Lo stile è molto giornalistico anglosassone: molte interviste a persone coinvolte e materiale d’archivio, cioè molti fatti e poche chiacchiere. L’autore ha scelto uno stile estremamente sobrio, rinunciando ad ogni abbellimento o illustrazione. Non è certo un documentario alla Michael Moore, con animazioni, grafici e stacchetti musicali, né alla Discovery o History Channel, con scene di fiction o ricostruzione. Tutto è molto sobrio, incalzante. I fatti vengono raccontati in modo poco cucinato e non c’è un attimo di respiro. L’autore rinuncia perfino a trarre delle conclusioni, ma lascia allo spettatore riflettere ed esprimere un giudizio su temi che si intravedono appena sullo sfondo di questo quadro: bene e male (good apples, bad apples), lato oscuro e lato luminoso dell’America e dell’umanità.

Il film è dedicato al padre, ex militare, profondamente credente negli ideali di libertà, giustizia e uguaglianza per cui ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Da tutto il film traspare un forte rammarico per la realtà dei fatti, ma non certo un antiamericanismo, al contrario, il rammarico proviene proprio da una profonda stima per gli ideali americani.

Ad un cinefilo queste immagini e l’umanità o meno del nemico non possono non far venire in mente La battaglia di Algeri, di Pontecorvo e Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pasolini.

 

Giudizi

Il film è certamente molto coraggioso e serio. Le scelte stilistiche e produttive, legate anche un budget limitato, sono allo stesso tempo giustificate dalla materia del film e contribuiscono alla sua coerenza. In più momenti l’autore stesso ha imbracciato di persona la cinepresa e ha scelto di usare la propria voce come voce narrante. Si tratta quasi di un servizio giornalistico di inchiesta in prima linea, ma la durata di quasi due ore lo rende veramente faticoso da guardare. Probabilmente, però, un argomento così non poteva essere affrontato altrimenti.