Se la guerra è l’inferno, perché sono in tanti a scegliere di combattere? In un’epoca in cui gli eserciti non sono formati da militari di leva ma da volontari, e gli uomini si lanciano di buon grado nell’azione militare, a volte la guerra corteggia in maniera potente e seducente fin quasi a diventare dipendenza.
Con la visionaria regia di Kathryn Bigelow, The Hurt Locker è il frutto dell’osservazione diretta del reporter e sceneggiatore Mark Boal. il film associa l’avvincente azione realistica al dramma umano più intimo per mostrare la psicologia di un soldato durante azioni ad altissimo rischio, fra uomini che scelgono di affrontare mortali avversità.
Dal Pressbook
La paura si è fatta una cattiva fama ma io non credo che sia meritata. La paura è chiarificatrice. Ti obbliga a mettere davanti le cose importanti e tralasciare quelle insignificanti. Quando Mark Boal è tornato da una missione come reporter in Iraq, mi ha raccontato dei soldati che disarmano le bombe in piena guerra, ovviamente un lavoro da unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità. Quando mi ha detto che erano persone estremamente vulnerabili e che per disarmare una bomba che uccide con un raggio fino a 300 metri utilizzano solo un paio di pinze, sono rimasta scioccata. Quando poi ho appreso che sono volontari e che spesso questo lavoro li prende talmente tanto da non potersi immaginare a fare qualcosa di diverso, ho scoperto che quello era il mio nuovo film.
Kathryn Bigelow
Avendo rinunciato da tempo a lavare la testa all’asino, ossia a polemizzare con le giurie, mi guardo bene dal sostenere che il Leone d’oro doveva andare a The Hurt Locker, lascio che parlino i fatti. l dieci critici che votavano su Ciak, il quotidiano della Mostra, hanno dato la preferenza al titolo di Kathryn Bigelow; e anche il pubblico, nella stessa sede, l’ha piazzato buon secondo dopo un delizioso cartoon di Miyazaki. Va detto inoltre che la brava regista, unica donna in concorso, ha collezionato non meno di 5 premi collaterali, mentre dal consesso ufficiale non è arrivato nessun riconoscimento. Se per Wim Wenders e compagni il film non è esistito, a me ha lasciato un’impressione profonda perché è forse la prima volta che ìl cinema di guerra affronta una realtà psico logica difficile da capire e ancor più da descrivere. Non si limita a constatare che ogni conflitto armato, nel nostro caso quella sanguinosa litania mortuaria che si trascina senza fine in Iraq, è il male in assoluto, ma ci fa toccare con mano come a questo inferno uno si può assuefare fino a non riuscire più a starne senza. È ciò che capita all’eroe impersonato da Jeremy Renner, uno specialista nel disinnescare le bombe più pericolose spesso presentato in una tuta corazzata tale da renderlo somigliante a un samurai o a un pilota spaziale. Insomma un alieno, un dannato morbosamente attaccato alla sua condanna. La guerra come vita: non è un messaggio vivido e doloroso sul quale vale la pena di meditare?
Tullio Kezich, Corriere della Sera Magazine, 9 Ottobre 2008
Scheda (de)genere
a cura di Andrea Lavagnini, Francesca Mazzini e Giuseppe Zito S.I.
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Introduzione
Il film di Kathryn Bigelow racconta i 40 giorni di un gruppo di artificieri statunitensi al fronte, in Iraq (ricostruito in Giordania), attraverso le cronache di Mark Boal, giornalista americano embedded.
Mark Boal con The Hurt Locker firma la sua seconda sceneggiatura dopo aver collaborato alla stesura di Nella valla di Elah (USA 2007) di Paul Haggis.
Il film muove da una citazione di Chris Hedges, inviato di guerra del New York Times, premio Pulitzer nel 2002 (con il testo War is a force that gives us meaning) e docente presso la New York University: “La guerra è una droga”. Guerra e assuefazione. Seduzione del combattimento e alienazione degli affetti. Necessità del nemico che è dappertutto e da nessuna parte. Questi i nodi tematici che Kathryn Biegelow esplora a partire dall’esperienza tragica della vita dei soldati al fronte. Di una vita che è e inesorabilmente si riduce a possibilità di morte.
Qual è “l’armadietto del dolore” (the hurt locker) che raccoglie e dis-chiude il mistero, terribile e magnetico, delle vite morenti dei soldati?
La guerra è davvero “la forza che dà significato”, come recita la trascrizione del titolo originale del libro di Chris Hedges (pubblicato in Italia con il titolo: Il fascino oscuro della guerra, Laterza, Roma 2004; Mondadori, Milano 2005)?
Elementi di senso
A un primo sguardo il film della Bigelow potrebbe sembrare ideologico, finalizzato a dimostrare una tesi annunciata all’inizio: la guerra è una droga. A uno sguardo più approfondito, però, è difficile vedere il film come una risposta o una dimostrazione. Probabilmente è più appropriato coglierne la domanda: “Chi è un vero uomo”? Un militare ammirato dopo una delle tante operazioni eroiche di James va da lui per congratularsi e gli dice: “Parli come un vero uomo”. Chi è il vero uomo? Quello che sfida la morte, che non ha paura di morire, che è più duro degli altri, che sa picchiare ed essere picchiato? Il film della Bigelow sembrerebbe dire di no, che è solo una droga, un brivido che passa. Ma d’altra parte qual è l’alternativa? Una vita mediocre fatta di cereali, giochi da bambini e una moglie che non spiccica una parola. James è preso tra due non sensi e preferisce il brivido che sfida la morte fisica, piuttosto che una lenta mediocrità mortale. Novello Achille?
Il mondo del brivido della guerra è rappresentato con illuminazione drammatica, luce calda, stimoli sonori fortissimi e che generano continua tensione, come la musica metal che ascolta James. Viceversa il mondo casalingo nel quale vive la compagna di James e suo figlio sono piatti, illuminati da neon freddi e senza suoni.
Non a caso James è terrorizzato infinitamente più dalle donne (anche la signora irakena in casa di Beckham) che dalle armi. Nella collezione di oggetti che lo hanno quasi ucciso, tra le centinaia di detonatori, conserva il più letale di tutti: la sua fede nuziale.
Anche Sanborn è un personaggio interessante da questo punto di vista: entra subito in competizione con James, ma deve riconoscerne la superiore virilità. Dice di non essere pronto ad avere un figlio, ma di non essere neanche a farsi fare fuori. Non è pronto né a vivere, né a morire, ma di fronte alla minaccia reale di morte dice: “Voglio un figlio”, almeno se muoio avrò lasciato qualcosa. Forse anche per James il figlio è solo un surrogato di sopravvivenza.
È possibile individuare “l’armadietto del dolore” che dà il titolo al film? Le immagini di cassette si moltiplicano: quella che raccoglie gli effetti personali del caposquadra Thompson, ucciso da un’esplosione; quella che James tiene sotto il letto con esemplari unici di bombe disinnescate che, per lui, sono state possibilità di morte; le scatole nere dei detonatori; file interminabili di scatole di cereali sugli scaffali del supermercato; la cassetta di metallo con un pupazzo di pezza a molla, gioco inconsapevole del bimbo di James; l’uomo-bomba lucchettato come un armadietto esplosivo; il corpo-bomba del bambino che assomigliava a Beckham e che fa saltare i nervi saldi di James...
Guardare e mirare (puntare, prendere la mira). L’atto di guardare nel film è sottolineato da un oggetto che viene puntato: mitragliatori, cannocchiali, torce elettriche, una telecamera… Quel modo di guardare è già una maniera di invadere e prevaricare sull’altro. Del resto il nemico è dappertutto (e da nessuna parte)… persino in un branco di capre a ore 12: “leviamo di mezzo queste piccole bastarde”.
Corpo a corpo: con le bombe (James disinnesca le bombe a mani nude e senza tuta di protezione… “se devo morire, voglio morire comodo…”); con i corpi-bomba (James sceglie di rimuovere il detonatore dal corpo del ragazzino che crede essere Beckham piuttosto che allontanarsi e far saltare l’intero edificio); fra i soldati (emblematica in tal senso e la scazzottata alcoolica fra James e Sanborn).
Guerra e droga: cosa nella guerra genera dipendenza? La furia della battaglia? La seduzione della morte? La paura? L’adrenalina? Il riferimento alla droga è esplicitamente tematizzato nel dialogo fra Sanborn ed Eldridge che immaginano di vendere “erba” a Baghdad…
L’illusione nel nome. Beckham, il ragazzino iracheno che fa amicizia con James, è simbolo di un sogno di fama e ricchezza, ma il sogno del calcio e quello del cinema si rivela inconsistente: Beckham vende DVD (porno) sfuocati e tremolanti.
Maschile e femminile. Della Bieglow è stato detto, in maniera provocatoria, che è una che donna gira come un uomo. Nel film compare un solo personaggio femminile (a parte le bimbe e le donne irachene ): la moglie di James. È veramente il film di un maschiaccio oppure quello di una donna che si mette nei panni di un uomo soldato?
Giudizi
Patriottismo o antimilitarismo? Il film si smarca da due stereotipi che possono caratterizzare i film di guerra. Le immagini di The Hurt Locker ci fanno sprofondare nelle pulsioni primarie che abitano il cuore di ogni uomo (eros e thanatos)…