The Irishman

San Fedele 1
Auditorium San Fedele 30 gennaio 2020, ore 15.00 e 19.45
Regia di Martin Scorsese
Frank Sheeran è un veterano della Seconda Guerra Mondiale e un autista di camion quando incontra l'uomo del destino, Russell Bufalino, boss della mafia a Filadelfia, che vede in lui il tratto principale di un buon ufficiale: l'affidabilità. Le famiglie di Frank e Russell stringono un'amicizia che va al di là (ma non al di sopra, come vedremo) del business. Russell è così fiero di Frank che lo presenta a Jimmy Hoffa, il capo del sindacato dei camionisti, più popolare di Elvis e dei Beatles messi insieme. Hoffa è vulcanico e brillante, calcolatore e stratega, ma anche affettuoso e seducente. Frank non è immune al suo carisma e diventa il suo guardaspalle, il suo consigliere e, forse, il suo miglior amico. Il viaggio di questi tre personaggi attraverso gli Stati Uniti e la Storia americana è la stoffa di cui è fatto il cinema.



Commenti del pubblico

VOTO: da premio
Menzione per la recitazione.
In sede di introduzione al film è stata consigliata una lettura stratiforme del "lungometraggio" di Martin Scorsese e in tal senso provo ad esaminarlo. Partiamo dallo strato esterno, le modalità di comunicazione, il film sul grande schermo ha tutta la sua valenza, e rispecchia  la lunga strada del regista ma, fondamentalmente, è stato creato utilizzando moderne tecnologie per altri strumenti di comunicazione. 
Come un racconto, secondo strato, divisibile in più parti, al tempo stesso omogeneo e con riferimenti storici che a noi, quasi coetanei dei protagonisti, ricordano momenti dell'esistenza che ai giovani suonano nuovi se non addirittura sconosciuti. 
Cosa ci ha voluto trasmettere il regista, terzo strato, al di là del racconto, del connubio ormai su scala mondiale fra politica ed organizzazioni malavitose; le difficoltà del singolo di invecchiare e come invecchiare, in quell'ultimo miglio della vita dove egoismi ed errori del passato fanno facilmente quota 100, ma lasciano amaro in bocca perché molte volte si pensa di aver agito correttamente nell'ambito dell'organizzazione in cui siamo stati inseriti, di aver fatto il meglio, e si scopre che la coperta era, in realtà troppo corta e qualcosa non è andato bene o non è stato sufficientemente considerato. 
Anche nell'epilogo finale, in quella ricerca un po' forzata di perdono ci sta molto dell'umano dubbio sul post mortem e quella porta lasciata semiaperta mi sembra racchiuda la speranza per una visita familiare che non ci sarà mai. 
Una colonna sonora che al sottoscritto ha riportato alla mente solo piacevoli giovanili ricordi, forse ancor più accattivante vista la contrapposizione con la storia narrata, completano l'involucro. 
Proprio come qualche critico ha scritto un "testamento capolavoro", quindi degno del premio.
Edoardo Imoda

VOTO: ottimo+       
Menzione per la regia, le interpretazioni e la fotografia.
Non è esattamente l'inizio che mi sarei aspettata per un film sulla malavita: una casa di riposo. Ma è l'inizio perfetto; Scorsese ci fa guardare il mondo (non solo quello criminale) nella prospettiva della vecchiaia, con gli ingombranti ricordi, i rimorsi, i rimpianti. Il genere gangster-movie è forse il più energico e adrenalinico, e questo inizio è sicuramente un'intelligente controtendenza. Ma Scorsese ha 77 anni e conosce la natura umana. Mi ha colpito la fotografia; anche in questo caso è stata come uno sguardo al passato. Col trascorrere degli anni, le immagini cambiano aspetto, definizione, colore. Il regista si è quasi messo da parte ed ha lasciato emergere i propri attori. Come sempre De Niro lavora magistralmente per sottrazione, Al Pacino mantiene il proprio carattere espressionista e Pesci non tradisce la propria grande abilità interpretativa. "Uno con la pistola lo attacchi. Col coltello... scappa!"
Alessandra Casnaghi

VOTO: ottimo
Tre grandi attori e una sceneggiatura coinvolgente con una struttura a doppio flashback, mantengono alta l'attenzione degli spettatori malgrado la esagerata lunghezza del film.
Felice la proiezione in lingua originale con i sottotitoli: non solo si sono apprezzate le voci degli interpreti ma anche tante espressioni del lessico del crimine mafioso.
Caterina Parmigiani

VOTO: da premio
La lunga inquadratura che ci conduce attraverso le stanze della casa di riposo alla sedia a rotelle di Frank, è guida efficace alla lettura d’una vita che va compresa nel campo lungo segnato, nel suo stesso racconto, dal marchio d’origine di assassino comandato, contro le leggi di guerra, di due prigionieri peggio che pericolosi, un ostacolo. Continuerà a farlo tutta la vita, nell'apparente bonarietà di rapporti di familiarità mafiosa che vela appena la violenza professionale da mattatoio del colpo alla nuca (due, è meglio). È solo lavoro, artigianale ma della stessa grana di quello industriale dei mattatoi umani nazisti. Tanto che appare ingiustificata e eccessiva la violenza spontanea di Frank nel calpestare il negoziante che ha maltrattato la figlia (che giustamente respinge il padre, pur senza conoscerne il lavoro). E noi spettatori, come le persone ricordate nel film, seguiamo il tutto, non indifferenti, ma consapevoli che così succede e che la giustizia costretta a ripiegare su accuse fondate su delitti molto meno gravi, è anch'essa un fatto della vita. Proprio perché assente, grande protagonista del film - anzi, della memoria dei fatti - è l’umanità che Desmond Tutu, ricevendo il Sidney Peace Prize nel 1999, disse si acquista «nella nostra relazione con gli altri; non possiamo diventare umani da soli». È di diritti umani e di pace in terra che questo film ci parla, a lungo, perché possiamo riflettere e capire.
Giuseppe Gario

VOTO: da premio
Si è veramente immersi nel grande cinema. Ho gustato fino in fondo questa grande possibilità di avere insieme De Niro e Al Pacino e dietro la meravigliosa regia di Scorsese, un vero mito, un animale della macchina da presa. I due si parlano, si guardano e ho davanti la loro grandezza nella loro propria lingua, mi vengono in mente i loro volti giovanili, il lungo cammino fatto insieme a noi. Apparentemente è una visione romantica, affettiva della mafia, ma c'è un senso di orrore già in piccole cose, il senso della follia dell'uomo, della sua non umanità come normalità e la compassione lasciata solo a situazioni limite, parte di una morale tutta a sé stante. È vero cinema, avvincente e al tempo stesso meditativo, che lascia spazio ampio alla riflessione. I riferimenti finali alle figlie e al prete ci lasciano una speranza, ma anche il senso del muro che si crea quando si entra in quella logica, un muro granitico, nel quale può entrare anche un Irish man, un non addetto ai lavori, ma quando ci entra non riesce a capire altre possibilità, altre visioni. È il tema tremendo del livello di consapevolezza.
Andrea Florio

VOTO: ottimo
Basato su fatti storici e personaggi realmente esistiti, il film è uno spaccato della mafia italo-americana a partire dagli anni '50, potente e spietata, in cui si inserisce il ritratto di uno dei suoi sicari, l'irlandese Frank Sheeran, che, veterano di guerra, ha imparato a mettere a tacere la sua coscienza ed è preciso e affidabile nell'eseguire i sanguinosi incarichi che gli vengono affidati, tanto da diventare uomo di fiducia del boss Russell Bufalino. Solo alla fine, divenuto ormai vecchio, ricoverato in una casa di riposo e abbandonato dalle figlie, il protagonista prova a fare un bilancio della sua vita, senza però riuscire a prendere davvero le distanze dal suo passato e ad ammettere il suo assassinio più doloroso.
Lucia Donelli

VOTO: ottimo
Questa opera monumentale di Scorsese è un po' il compendio del cinema americano, con gran parte dei suoi mantra, dalla convinzione che ad ognuno è data una possibilità di successo, al senso dell'onore, dalla religiosità delle relazioni personali, al superiore gioco del destino che determina tanto dell'agire.
Il senso dell'onore è naturalmente privo di morale, nella migliore tradizione del gangsterismo yankee.
Quando però si è al capolinea, ci si riaccosta a Dio, ma a modo proprio: un cammeo è la frase di De Niro in risposta al prete che gli chiede di provare pietà per le famiglie delle vittime: "ma io non conoscevo le famiglie" obietta con evidente convinzione di essere nel giusto.
Sintomatica comunque in finale è la speranza che qualcosa di buono gli possa accadere, compendiata nella richiesta di lasciare la porta semi aperta, quando esce.
Una recitazione strepitosa, una regia attenta a non esagerare né nel mostrare la violenza, né nel voler affermare il lato romantico del crimine, ma piuttosto al lato umano del protagonista e delle sue relazioni con le figlie, uniche custodi dell'etica umana e comunitaria, e con i cosiddetti amici.
Una fotografia che avvalendosi di una sceneggiatura praticamente inappuntabile, riesce a far apparire normale anche ciò che non lo è.
Valori umani molto ben trattati.
Tre ore e mezza di puro godimento.
Giulio Koch

VOTO: da premio
Una saga "familiare" nell'America dei gangsters degli anni '50, raccontata da un veterano della seconda guerra mondiale, di origine irlandese, che subisce il fascino di un boss mafioso. Sarà perciò spinto a condurre una vita da bandito, dove vige la legge del taglione che rende apparentemente vincente il più aggressivo e potente, ma non fa sconti con la legge morale che, coinvolgendo gli affetti più intimi, rende vulnerabili, fragili e perdenti. Molto accattivanti la fotografia ed il montaggio che riescono a dare un senso peculiare ad ogni cambio di scena che vede alternarsi la narrazione e la realtà degli eventi.
Chiara Ghioni