Durata:100 minuti

Lo specchio di A. Tarkovskij

Cin'Acusmonium
Auditorium San Fedele, Via Hoepli 3a Lunedì 4 marzo 2019 21
testo/musica
Lunedì 4 marzo 2019
Auditorium San Fedele, via Hoepli 3b 
 
Proiezione acusmatica di
LO SPECCHIO (1975) di Andrej Tarkovskij
proiezione acusmatica a cura di Dante Tanzi.

(Prevendita dei biglietti consigliata, clicca QUI, tel. 02 86352231)

Titolo originale Зе́ркало, Zerkalo
Paese di produzione Unione Sovietica
Anno 1975
Durata 108 min
Dati tecnici B/N e a colori
Genere drammatico
Regia Andrej Arsen'evič Tarkovskij
Sceneggiatura Andrej Tarkovskij, Aleksandr Misarin
Fotografia Georgi Rerberg
Montaggio Lyudmila Feiginova
Musiche Eduard Artemyev, Johann Sebastian Bach, Giovanni Battista Pergolesi, Henry Purcell
Scenografia Nikolaj Dvigubskij

SINOSSI
Giunto a quarant’anni e vicino alla morte, Aleksei, alter ego del regista, fa un bilancio della propria vita rievocando due vicende familiari analoghe, complementari, consecutive: la propria infanzia con la madre e la sorellina dopo che il padre li aveva lasciati; sé stesso adulto che si è separato dalla moglie e dal figlio… 

APPROFONDIMENTI
Nello Specchio mi sono sforzato di trasmettere la sensazione che Bach, Pergolesi, la lettera di Puškin, i soldati che attraversano il Sivaš e gli avvenimenti domestici, puramente personali, (e forse maggiormente le poesie del padre, NdC) formano un tutto in un certo senso egualmente significativo per l'esperienza umana. (da Scolpire il tempo, pg. 174)

Nelle fasi iniziali del film:

Primi incontri
Dei nostri incontri ogni momento noi
festeggiavamo come epifania,
soli nell'universo tutto. 
Tu più ardita e lieve di un battito d'ala
su per la scala, come un capogiro
volavi sulla soglia, conducendomi
tra l'umido lillà, dentro il tuo regno
che sta dall'altra parte dello specchio.
Quando scesa la notte, a me la grazia
fu elargita, le porte dell'altare
si aprirono, nel buio prese luce
e lenta si chinò la tua nudità.
[…]
Sulla terra tutto fu trasfigurato,
anche le cose semplici - il catino,
la brocca - e tra noi di sentinella
stava l'acqua dura e stratiforme.

Chissà dove fummo sospinti,
dinanzi a noi s'aprivano miraggi
di città costruite per prodigio,
solo la menta si stendeva sotto i piedi
gli uccelli erano compagni di viaggio
i pesci balzavano dal fiume
il cielo si dispiegava ai nostri occhi…
Quando il destino seguiva i nostri passi
come un pazzo con il rasoio in mano.

Questo procedimento richiama in qualche cosa l'incarnazione dell'immagine dell'eroe lirico nella letteratura e anche nella poesia: egli è assente, ma il modo in cui pensa e quello che pensa creano una rappresentazione di esso vivida e definita. E' in questo modo che, in seguito, è stato costruito Lo specchio (da Scolpire il tempo, pg. 30).
Il protagonista dello Specchio, un uomo debole ed egoista, incapace di donare alle persone a lui più care un amore disinteressato, che non domandi nulla in cambio, viene riscattato soltanto dai tormenti spirituali che prova quando giunge al termine della propria esistenza rendendosi conto dell'immensità del suo debito nei confronti della vita
(da Scolpire il tempo, pg. 184).
Io non credo nel carattere "multistrato" del cinema. La polifonia nel cinema non nasce dalla molteplicità degli strati, ma da un arricchimento progressivo, inquadratura dopo inquadratura, dovuto alla loro successione e alla loro accumulazione (inquadratura N° n = inq. N°1 + inq. N°2 + … + inq. N° n). E non solo questo. La polisemia dell'immagine risiede nella qualità dell'immagine stessa. (da Martirologio, 4 Febbraio 1974).

E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l'altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.

Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un'onda dietro l'altra si frange sulla riva,
e sull'onda la stella, e l'uomo, e l'uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un'onda dietro l'altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.

La prima quartina del sonetto illustra molto bene una concezione del tempo caratteristica del poeta; una concezione di un tempo assoluto, circolare alla maniera dei Four Quartets di Eliot, al di fuori della contingenza ma che, nel contempo, la contiene ("e sull'onda la stella, e l'uomo, e l'uccello, / e il reale, e i sogni, e la morte: un'onda dietro l'altra"); l'onda, quindi l'acqua, si pone subito, sia nelle poesie del padre sia nei film, come elemento primordiale. È l'idea-immagine di un tempo nel quale sogno e realtà sono fusi.
"E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia" ricorda l'atteggiamento materno delle Madonne di Leonardo; nel film il regista inserisce lunghe inquadrature di alcuni quadri di Leonardo (Madonna col bambino e Sant'Anna, Vergine delle rocce e Ritratto di Ginevra Benci sopra riportato); ma il regista si riferisce anche alla terra-madre Russia evocata dalla lettera di Puškin e da i soldati che attraversano il Sivaš.
Il film doveva intitolarsi inizialmente Una bianca, bianca giornata, titolo di una lirica del padre a cui il regista fa riferimento nella scena finale:

Una bianca, bianca giornata
"Sta una pietra presso il gelsomino.
Un tesoro c'è sotto la pietra.
Mio padre è sul sentiero.
È una bianca, bianca giornata.

Il pioppo d'argento è in fiore,
la centifoglia e dietro a lei
le rose rampicanti,
l'erba lattescente.

Non sono mai stato
piú felice di allora. […]

Là non si può ritornare
e neppure raccontare
com'era colmo di beatitudine
quel giardino di paradiso.

Il figlio non può ritornare in quei luoghi proprio perché il padre, il poeta, se n'è andato; potrebbe essere ma non è lui l'uomo che all'inizio del film si avvicina alla casa. Ma il film ritorna a "quel giardino di paradiso" dove il bambino "era colmo di beatitudine"; l'ultima inquadratura del film è il campo di grano saraceno in fiore che si riferisce all'"erba lattescente" della poesia.

Un'ultima poesia citata nel film.

Vita, vita
Ai presentimenti non credo e i presagi
non temo. Né calunnie né veleni
io fuggo. Sulla terra non esiste la morte.
Tutti siamo immortali. Tutto è immortale.
non bisogna temere la morte né a diciassette anni
né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce.
 
SPUNTI
Con Lo Specchio (1975) Andrej Tarkovskij sussume e supera il linguaggio dei suoi film precedenti. Se già aveva sperimentato con libere digressioni, immagini oniriche e flusso di coscienza, con questo coraggioso lavoro si libera dalle connessioni che ancora lo legavano ai generi –  al film di guerra con L’Infanzia di Ivan (1962), al racconto storico con Andreij Rubliov (1966) o alla fantascienza con Solaris (1972) – e intraprende un percorso ancor più ermetico, completando inoltre la rottura politica le cui prime avvisaglie già emergevano dal ritratto della giovane psiche martoriata del protagonista del suo primo lungometraggio.

Per la prima volta nella sua carriera Tarkovskij mette in qualche modo se stesso al centro di una propria opera – i cui elementi autobiografici sono tutt’altro che latenti – e concentra il suo sguardo tanto sul proprio rapporto fragile e sempre più distaccato con la società sovietica, con le gerarchie del potere ideologico, con la sua stessa identità di cittadino e artista; quanto sulla propria vicenda umana e familiare. Lo Specchio in cui si guarda il regista diventa così il ritratto di un’identità smarrita, che cerca una catarsi nella riflessione sul senso del tempo, e sul modo in cui questo giochi con le vite degli individui e dei popoli. Ecco perché Lo Specchio per Tarkovskij è un’opera spartiacque, un passaggio ineludibile che cambierà per sempre la sua filmografia.

IL RIFLESSO DI ALEKSEJ
Il film non ha una trama tradizionale, ma è piuttosto un montaggio non lineare di vari momenti della vita del protagonista Aleksej, che incontriamo adolescente nel 1935 ma che ritroviamo anche durante la guerra e poi negli anni ’60 e ’70. A queste libere divagazioni biografiche, nelle quali il ruolo della presenza femminile è fondamentale, sono alternati momenti onirici e simbolisti ma anche momenti importanti per la storia della Russia, in un flusso in balia del quale lo spettatore è abbandonato senza alcuna indicazione precisa.

La pellicola inizia, non a caso, con un ragazzo balbuziente in cura da una terapista che cerca di utilizzare la tecnica dell’ipnosi per fargli ritrovare la linearità della parola. L’incapacità di dire è ovviamente anche l’incapacità del cineasta di conquistare una visione chiara e definita di ciò che lo circonda. È un preambolo necessario che dà lo slancio a Tarkovskij per elaborare il concetto di “specchio”, quella superficie in grado di riflettere il mondo che ci consente di avere un punto di osservazione attento e concentrato, una lente d’ingrandimento dei nostri ricordi e dei fantasmi imprigionati in essi. In questo caso ad usare lo specchio, ovvero la rievocazione per immagini e riflessi, è il protagonista Aleksej (alter ego di Tarkovskij), che ormai in fin di vita delinea un bilancio della propria esistenza attraverso un racconto parallelo e intrecciato di due vicende del proprio passato: da una parte il legame con la madre quando ancora era un bambino e dall’altra la separazione con la moglie e il figlio quando ormai Aleksej è un uomo maturo.

VITE REPLICATE
Tutto il lungometraggio procede dunque per rifrazioni e riverberi, proprio come se lo specchio tarkovskijano diventasse anche un fulcro stilistico, come se fosse irrimediabilmente frammentato in mille pezzi. I piani sequenza tipici del regista sono fluidi e sinuosi, le inquadrature si concentrano sui corpi assenti (con molti dialoghi fuori campo) e finiscono per posarsi spesso sugli oggetti più che sui soggetti. La macchina da presa di Tarkovskij qui funziona esattamente come la nostra memoria: mostra e omette attraverso un’atmosfera malinconica, dettata anche dal cambiamento della fotografia (come l’utilizzo del color seppia o del bianco e nero), capace di alternare presente e passato, menzogna e verità, realtà e immagini oniriche.

In questo mosaico di frammenti mnemonici con il quale Tarkovskij cerca di attraversare lo “specchio”, il piano temporale si fonde e si confonde, coinvolgendo perfino gli attori: Margarita Terekhova interpreta infatti sia la figura della madre che della moglie di Aleksej, mentre il giovane Ignat Daniltsev impersona sia l’Aleksej adolescente ma anche il figlio di Aleksej maturo. Rimandi del passato nel presente e viceversa, in un circolo perpetuo dove affetti e abbandoni, sbagli e errori, si replicano proprio come le visioni dello specchio. Come se non bastasse ad inizio film viene recitata una poesia di Arsenij Tarkovskij (padre del regista) e anche la vera madre del cineasta russo, Maria Višnjakova Tarkovskaja, compare nelle scene finali.

L’UOMO E LA STORIA
Siamo insomma di fronte ad un lavoro incredibilmente complesso sul concetto di memoria, di tempo e di identità; temi intimi ma anche universali. Perché, oltre ai riferimenti autobiografici, Tarkovskij inserisce nella pellicola anche immagini di repertorio: la seconda guerra mondiale, la presa dell’armata rossa di Berlino, la bomba atomica, la guerra civile spagnola. La storia è come la vita di ognuno di noi, è incapace di vedere se stessa senza commettere gli stessi errori. In quest’ottica la riflessione sul ruolo della propria patria è sottile ma spietata, perché anche l’Unione Sovietica sembra aver perso il ricordo delle proprie radici, proprio come un adulto si dimentica della propria infanzia. Ad esempio, quando si cita una lettera di Puškin, la Russia viene ricordata come lo spartiacque fra occidente e oriente, punto di incontro fra il cristianesimo e tradizione slava. È un sintomo evidentissimo del Tarkovskij che sta iniziando a guardare all’idea religiosa come via di fuga ideale rispetto alle ambiguità del presente, un segnale potenziato ulteriormente verso il finale quando un uccellino volerà via dalla mano dell’Aleksej morente: ecco lo slancio spirituale in cui l’animale-uomo, non potendo governare la storia e la propria vita materiale, decide di farsi spirito, di trascendere dalla realtà. Dopotutto, come dicevamo, Lo Specchio è il film dell’emarginazione politica per Andrej Tarkovskij e la sua incomprensibilità agli occhi del Goskino (l’ente statale incaricato di coordinare e organizzare l’attività cinematografica in Unione Sovietica) sancì il definitivo distacco dal regime sovietico. Questo lavoro, distribuito in poche copie, relegò il regista alla marginalità in patria.

Ma sta proprio qui l’incredibile potenza di questa opera, ermetica ma capace di sviluppare un rapporto unico e magico con le singole individualità che si avvicinano ad essa. Lo stesso Tarkovskij, nel suo libro Scolpire il tempo – Riflessioni sul cinema, apre il volume con alcune lettere inviategli dal suo pubblico, che testimoniano quanto proprio Lo Specchio sia stato il suo lungometraggio che più ha colpito l’immaginario di chi lo ha visto. Come gli scrisse un’operaia di Novosibirsk: “Tutto ciò che mi tormenta, che mi manca, di cui ho nostalgia, che mi indigna, che mi nausea, che mi soffoca, che mi illumina e mi riscalda, di cui vivo e mi uccide, tutto questo l’ho visto nel Suo film, come in uno specchio. Per la prima volta un film è diventato per me realtà, ecco perché vado a vederlo: vado a vivere dentro di esso”. Sono forse proprio le parole di una semplice spettatrice – non a caso citate dal cineasta – a racchiudere perfettamente il senso di quest’opera imprescindibile.