MER 9 Gennaio, I dannati dell’oceano, di J. von Sternberg

Auditorium San Fedele, Via Hoepli 3a  ore 20.30
testo/musica

CINEMA MUTO & LIVE MUSIC – I

Mario Marzi, sassofono
Simone Zanchini, fisarmonica
 
“Al cuore dell’opera vi è l’ambigua realtà del piacere che si fa amore”

   SINOSSI
   New York, Bill Roberts, gigantesco fuochista, scende a terra per una notte, deciso a trascorrerla in modo memorabile, prima di riprendere il mare. Scorta una ragazza che sta annegando, la salva. Ma Mae, una povera ragazza sperduta, non lo ringrazia: era un tentativo di suicidio. Bill se la porta dietro, docile e disperata, in un bar del porto, dove la serata diventa effettivamente memorabile: in un’atmosfera di ebbrezza e di euforia, Bill mezzo ubriaco, decide di sposare Mae, e la cerimonia, grazie all’intervento di uno strano prete ha luogo. Quando Bill, la mattina seguente, si alza per andare a imbarcarsi, abbandonando la ragazza che ha sposato per gioco, Mae cerca di trattenerlo, disperatamente illusa della serietà del suo matrimonio; inutile, Bill non ha mai perso una nave in vita sua…
   
   APPUNTI
   Il fuoco e l’acqua
   I dannati dell’Oceano è una pietra miliare dello schermo muto. Il film sembra nascere dal desiderio del regista di esercitarsi in un programma espressivo vicino al genere Kammerspiel che si svolge con pochi personaggi, in pochi ambienti. Sforzo di spogliazione, però con un preciso intento, come scrive Sternberg: “compressione in uno spazio limitato di un potere spirituale infinito”. La storia è un pre-testo: un breve incontro fra un burbero marinaio e una prostituta disperata, con il graduale consolidarsi del loro amore e la decisione di vincere la solitudine e la brutalità con un sodalizio umano e familiare.
   Il centro dell’opera di Sternberg è invece la scrittura “delle immagini” veicolata dai protagonisti Bill e Mae. Il marinaio e la prostituta non hanno un passato, una “storia”, neanche un ambiente sociale dietro di loro: Bill viene dal fuoco, Mae dall’acqua. La sala macchine, con la grande caldaia infuocata, il carbone, i lampi di luce cruda, il fumo, è il punto di partenza e d’arrivo del protagonista, un ventre vulcanico che l’inghiotte dopo averlo lasciato una notte a terra. La scena finale presso la caldaia è di una bellezza luministica inarrivabile. La decisione di tornare da Mae nasce qui, improvvisamente, quando l’ufficiale chiede “più vapore e meno chiacchiere”. Bill sale in coperta e si getta in mare, con un gesto di una semplicità fantasticamente umana. L’acqua, elemento di Mae, lo pulisce dal fumo e lo sporco che si addensa sulla faccia.

   La Notte e il Giorno
   La struttura di The Docks of New York è condizionata da un motivo luministico, chiaroscurale. Il primo “atto” del film è dominato dalla Notte, il secondo dal Giorno. Al cuore dell’opera vi è l’ambigua realtà del piacere che si fa amore: verso questo centro “invisibile”, ma potentissimo, convergono tutti i movimenti “notturni” della prima parte, il desiderio degli uomini, la rassegnazione di Mae, la festosità del bar. Da quel centro irradiano i movimenti della seconda parte: le morti, le condanne, le delusioni degli addii, i pentimenti, i riscatti.

   La Notte è il regno del desiderio, dell’illusione, della finzione. Il Giorno è il tempo del risveglio, della delusione, della resa dei conti, del dovere. Nella Notte è il gesto dell’esaltazionee della frenesia, nel Giorno il gesto della quotidianità e dello scontro con il reale. I due “tempi” del film culminano in due scene centrali. Nella parte “notturna” si svolge una di quelle grandiose e incredibili feste, con il matrimonio fittizio. Nella parte “diurna” si colloca la sequenza più celebre del film: siamo nella povera stanza di Mae e Bill sta per lasciare definitivamente Mae. Il compagno di Bill gli fa fretta e gli strappa la tasca della camicia. Mae prende ago e filo e cerca di riaggiustargliela, ma è vinta dall’emozione. In una sconvolgente inquadratura “soggettiva”, l’ago in primo piano è velato da uno schermo nebuloso: sono le lacrime di Mae che fanno groppo sul ciglio della donna e sulla lente dell’obbiettivo e non permettono al filo di trovare la cruna.
   I conflitti umani, l’intensità dei sentimenti si ritrovano sublimati nel linguaggio di von Sternberg, molto elaborato e di un’inventiva inesauribile. Il gioco della luce e dell’ombra è portato avanti con una raffinatezza estrema, ma in modo autentico. La macchina da presa è usata con una mobilità lenta e continua (Giovanni Buttafava).