19 ottobre 2020, ore 20
Auditorium San Fedele, via Hoepli 3b
CIN'ACUSMONIUM
Sacrificio(1986) di
Andrej Tarkovskij
a cura di Dante Tanzi.
(Prevendita dei biglietti consigliata,
clicca qui, tel. 02 86352231)
Offret - Sacrificatio - Zertvoprinosenye
SVEZIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA - 1986
Attori: Erland Josephson, Susan Fleetwood, Allan Edwall, Gudún S. Gísladóttir (Gudrún Gísladóttir), Sven Wollter, Valérie Mairesse, Filippa Franzén, Tommy Kjellqvist
Soggetto e sceneggiatura: Andrej Tarkovskij
Fotografia: Sven Nykvist
Musiche: "St. Matthaeus-Passion" di Johann Sebastian Bach, musica strumentale giapponese (flauto di Watazumido Shuso)
Montaggio: Andrej Tarkovskij, Michal Leszczylowski, Henri Colpi
Scenografia: Anna Asp
Costumi: Inger Pehrsson
Effetti: Lars Höglund, Lars Palmquist
Durata: 143'
SINOSSI
Nella sua casa su un'isola svedese l'anziano intellettuale Alexander festeggia con i familiari il suo compleanno quando arriva per televisione l'annuncio di una catastrofe misteriosa. Ritrovando le parole del Pater Noster, Alexander lo invoca, offrendogli tutto quel che ha pur che tutto ritorni come prima. Dà fuoco alla sua casa, rinuncia al figlioletto, si vota al silenzio, accetta di essere scambiato per un folle.
APPROFONDIMENTO I TRAMA
La cinepresa scorre sopra l'"Adorazione dei Magi" di Leonardo da Vinci, partendo dal Bambino per arrivare alla scura chioma dell'albero.
Sulla riva del mare ci sono Aleksander e suo figlio, il piccolo Ometto: stanno piantando un albero secco, riprendendo l'antica leggenda giapponese secondo la quale uno analogo, annaffiato scrupolosamente per tre anni, alla fine rifiorì. Aleksander è un ex attore di teatro che ora si è ritirato in una splendida e isolata villa, dedicandosi all'insegnamento e alla ricerca. Questo è il giorno del suo compleanno: prima Otto, il postino della zona, poi Adelaide, la moglie del protagonista, assieme a Viktor, il medico di famiglia, raggiungono i due e fanno gli auguri ad Aleksander. Costui s'attarda in compagnia del figlio: è il solo a parlare, giacché Ometto ha appena subito un'operazione alla gola. Aleksander è pessimista nei confronti del futuro dell'umanità: "L'uomo ha costantemente violentato la natura". Inavvertitamente, Aleksander colpisce Ometto al volto: perde i sensi ed ha una visione catastrofica.
In casa, dopo aver ammirato il libro d'icone regalatogli dal dottore, Aleksander discorre con questi, con la figlia Marta e la moglie. Arriva Otto: il suo regalo è una splendida carta geografica della fine del Seicento. Ma il regalo più sconvolgente Aleksander lo scopre all'esterno: una perfetta miniaturizzazione della sua villa; la serva Maria gli spiega che quello è un regalo di Ometto, costruito assieme ad Otto.
La casa trema, si odono degli aerei sfrecciare in cielo. La televisione trasmette il comunicato di un ministro: si rischia una guerra atomica. Adelaide ha una crisi, Aleksander sale al piano di sopra e, dopo aver recitato il Padre Nostro, promette a Dio che, se la sua famiglia verrà risparmiata, egli gli offrirà tutto ciò che ha di più caro. Addormentatosi, sogna. Il postino lo sveglia, e gli comunica che c'è una possibilità che tutto ritorni come prima: Aleksander dovrà recarsi a casa di Maria, e fare l'amore con lei. Quella è una strega dotata di poteri straordinari. Dopo l'iniziale incredulità, il protagonista accetta e, non visto dai suoi cari, raggiunge la serva. Dopo averle confessato un caro ricordo, le chiede il suo amore. Maria lo abbraccia, e i due lievitano.
E' mattina. Aleksander si sveglia: è nel suo studio, al piano di sopra, e tutto pare tornato alla normalità. I suoi familiari, riuniti all'esterno per il pranzo, leggono un biglietto del protagonista, che li invita a fare una passeggiata. Una volta lontani, Aleksander adempie alla promessa e dà fuoco alla casa. Giunta un'ambulanza, egli, dopo un'iniziale resistenza, vi entra spontaneamente. L'automobile si allontana, passando accanto all'albero secco in riva al mare: Ometto, come se nulla fosse successo, lo sta innaffiando diligentemente. Sdraiatosi ai piedi dell'albero, il bambino pronuncia le sue prime parole: "'In principio era il Verbo'. Perché, papà?". La cinepresa s'innalza, ad inquadrare i rami secchi contro la scintillante superficie del mare. Compare la scritta con cui il regista dedica il film al proprio figlio, "con speranza e fiducia".
APPROFONDIMENTO II CRITICA
"Dobbiamo dilatare l'anima da tutte le parti, come se fosse un lenzuolo dilatabile all'infinito" gridava il "matto" poco prima di sacrificarsi tra le fiamme, davanti ad una folla immobile, nel finale di Nostalghia. "Le strade del nostro cuore sono coperte d'ombra". Più che ombra, è una forma solida e opaca di luce quella che illumina la parte centrale di Sacrificio, l'ultimo filmpreghiera di Andrej Tarkovskij. Preghieravibrazione, come facevano i pellirosse, che si affidavano agli aquiloni al vento; preghiera-invocazione (il "Padre nostro" pronunciato da Alexander, che scopre Dio e gli si rivolge offrendo se stesso, il proprio silenzio, la propria coscienza in cambio della salvezza degli uomini dal disastro nucleare); preghiera-ascolto, la forma più vicina alla poesia. L'anima, dilatandosi, si confonde con il mistero del mondo, "con il tremore delle cose che ci circondano".
Sacrificio non è necessariamente il film più bello di Tarkovskij, ma senza dubbio il più importante. Un film che il destino ha voluto fosse il suo bilancio artistico, il suo messaggio definitivo. Ma l'importanza di Sacrificio va cercata oltre l'emozione ed il legame probabile che ha intrecciato con gli ultimi consapevoli mesi della sua vita. Sacrificio è forse l'albero piantato da Alexander sulla spiaggia del mare del Nord e affidato all' amore muto e personale del figlio, legame simbolico con la vita e con la morte' il film in cui Tarkovskij ha portato più in là la sua ricerca di una nuova dialettica tra l'io persona individuale che coltiva la propria anima a dispetto di tutti e l'io-uomo tra gli altri uomini, che cerca di condividerne il destino. La radice poetica di Tarkovskij si rivela, in questo suo ultimo film, fatta più di attese che di risposte. La prima persona singolare così fortemente pronunciata ne Lo specchio si muove verso il moi teorizzato da Valery: "il moi - scrive Antonio Prete proprio interpretando le teorizzazioni del poeta francese - (trova) nel silenzio la sua vera dimora, nello specchio delle acque correnti il suo paesaggio. Il moi è il primo ascoltatore della parola interiore, non quello che risponde ma colui che sta per rispondere. Dal momento in cui risponde cessa di essere il moi".
L'albero è piantato nella terra, concentrato di materia che può dal luogo a sensazioni inafferrabili, come il suono (vedi l'episodio della campana in Andrei Roublev); perchè stupirsi se dalla terra un albero morto, secco, che quindi ha già vissuto potrà ritornare alla vita? Perchè un uomo deve credere in questo miracolo? Perchè il miracolo non avvenire? Le domande, sovrapponendosi, dilatano il mistero. E' difficile, se non impossibile, rintracciare un legame tra le inquietudini private, personali e "vissute" di Tarkovskij-Alexander e l'incubo che circonda la noce vuota della terra: il pericolo nucleare, la catastrofe alla quale il regista allude genialmente con un passaggio d'aerei in alto, nel cielo, con la caduta di una brocca di latte da un tavolo, con l'oscillare di una tenda, tra ombra e luce.
Alexander è una superficie prismatica che riflette il disagio del poeta protagonista de Lo specchio, i dubbi degli uomini di sciena di Stalker e Solaris, l'imbarazzo di fronte alla perfezione dell'arte che ossessionava il professore russo in Nostalghia; solo che a queste angosce, a questo diverso "sentire" rispetto agli uomini comuni, che infatti non comprendono e in qualche caso lo umiliano ed egli trova nell' incubo nucleare la spiegazione-giustificazione. Le paure di Alexander sono le paure del mondo; a lui tocca raccoglierle e superarle attraverso il sacrificio personale. C'è una sproporzione tra un gesto così individuale, così inspiegabile, così, smisurato (per eccesso e per difetto) e le motivazioni che lo provocano. E' la stessa sproporzione, lo stesso sbilanciamento avvertibile nell'intero film: Tarkovskij - come Alexander - non è fatto per i discorsi corali, per le tematiche complessive e universali. Nel sociale egli si annulla e la volontà del suo personaggio di inserirsi in un dramma corale si concretizza nella definitiva solitudine individuale. Il dramma nucleare che come un incubo percorre il film è comunque sempre un po' esterno rispetto al vero problema de Alexander: accettare che il mondo non proponga risposte - a chi lo interroga - ma solo nuove domande. Poco prima dello splendido piano-sequenza finale Alexander, nascosto in una baracca che si trova nei pressi della villa, cammina nervosamente scomparendo e riapparendo dal buio. Da quelle incursioni nel buio, nel cuore del mistero, Tarkovskij ha riportato solo enigmi ed una speranza quantomeno disperata. Il film è dedicato al figlio "con fiducia e speranza", ma neppure l'insieme dell'opera del grande maestro sovietico spiega l'origine questa finale e sorprendente dichiarazione di speranza. La Fede non ha impedito a Tarkovskij di andare più a fondo di tutti nelle grotte inesplorate dell'animo. La sua geologia del sentimento non gli ha dato successi certi, ma ipotesi incompiute di senso. Tarkovskij in Sacrificio è consapevole - più che nei film precedenti - che la verità della poesia non può e non deve consistere nell'inventare un'armonia e una logica alle cose e alla vita (alle cose della vita), né tentare di restituirglierla. Non rimane che testimoniare un mistero impenetrabile, che "parlare dell'indicibile". Sono i gesti definitivi e gratuiti, l'atto di donarsi pochi uomini deboli l'unico segno, l'unica indicazione-risoluzione di armonia per il mondo. Uomini deboli come Alexander, deboli come Otto, il suo doppio deformato, che sembra ricomposto con tutti i suoi lati mancanti, portati all'eccesso. Deboli come il padre de Lo specchio. Sacrificio è un film unico, come pochi film contemporanei si spinge aldilà del cinema e chiede di diventare esperienza vissuta. Si assiste a Sacrificio come ad un rito che si rinnova, ogni volta irripetibile; a renderlo unico sono i colori genialmente inventati da Sven Nykvist, la sospensione tra l'alluvione di parole e la perfezione illusoria del silenzio, la "zona" neutra tra un mondo proiettato all'esterno e il suo avvenuto assorbimento in un universo interiore.
Paolo Taggi, Segno Cinema n. 29 Settembre 1987
APPROFONDIMENTO III Intervista di Raffaella De Santis al figlio di Tarkovskij (2017)
l grande regista russo moriva trent'anni fa. I ricordi del figlio: "Grazie a Gorbaciov lo riabbracciai a Parigi"
FIRENZE Fuori c'è una targa di marmo che ricorda che qui Andrej Tarkovskij ha vissuto gli ultimi anni della sua vita. In questo palazzo storico di via San Niccolò a Firenze, il grande regista russo ha trascorso il suo esilio, insieme alla moglie Larisa. Qui ha lavorato al montaggio di "Sacrificio", il suo ultimo film, restaurato in occasione dei trent'anni dalla morte, avvenuta il 29 dicembre 1986. Dentro tutto è rimasto identico: i mobili di legno scuro, i collage alle pareti e due quadretti che Parajanov gli mandò dalla prigione. La casa ospita l'Istituto Tarkovskij, dove è custodito l'archivio: cinquemila documenti cartacei, tra cui i diari scritti a mano, settemila fotografie, più di mille ore di video. Ora rischiano di essere sfrattati dal comune. Qui vive oggi il figlio, che ha 46 anni e si chiama Andrej come il padre. Arriva da un'altra stanza il suono di un violino. È Natascia Gazzana, la compagna violinista di Andrej, che esegue una sonata di Ravel.
Andrej, iniziamo dalla fine, dall'esilio di suo padre. Quando vi siete rivisti?
"Una data indimenticabile: era il 19 gennaio 1986. Avevo sedici anni, non vedevo i miei genitori da quattro anni. Fu Gorbaciov a concedermi il permesso di andare a Parigi, dove papà era ricoverato. Aiutò molto un telegramma di intercessione di Mitterrand".
Suo padre chiese aiuto a tanti politici?
"Scrisse a Pertini, Andreotti, perfino a Reagan perché facessero pressione sul regime per ottenere il ricongiungimento familiare. Inutilmente, rimasi un ostaggio nelle loro mani".
Era un padre ingombrante?
"All'università mi ero iscritto alla facoltà di fisica e matematica per sfuggire al confronto. Poi ho capito che non era giusto. Oggi realizzo video e documentari e con l'Istituto mi dedico alla catalogazione e pubblicazione dei suoi lavori. Abbiamo da poco ripubblicato Scolpire il tempo ed è in cantiere un libro di racconti e poesie".
Che educazione ha ricevuto?
"Da bambino sfogliavo cataloghi d'arte e conoscevo a memoria tutti i passi della Passione secondo Matteo di Bach. Mio padre mi contagiava con il suo entusiasmo. Ricordo che dall'Italia mi chiamava ogni giorno. Una volta mi suggerì di procurarmi Walden di Thoreau. Pensava potesse aiutarmi a vivere nella solitudine".
Suo nonno paterno Arsenij era un grande poeta.
"Anche mia nonna scriveva versi. Si erano conosciuti a un concorso letterario. Mio padre le dedicò Lo specchio. Diceva che grazie a lei aveva scoperto che cos'è l'amore. Ma la nonna materna invece era una sarta, una donna concreta e molto saggia. Mio padre l'adorava".
Non deve essere stato facile separarsi dai propri genitori.
"Avevo undici anni ma capivo che era l'unico modo perché mio padre potesse continuare ad esprimere il suo talento".
Quando erano iniziati i problemi con il regime?
"Nel 1966, con Andrej Rublëv. Un film profondamente religioso. Fu censurato e il negativo rischiò di venire sciolto nell'acido. Si salvò grazie all'impegno di molti amici, tra cui Shostakovic, che ne organizzarono proiezioni private, aiutati da mia madre Larisa".
Dove si erano conosciuti?
"Sul set di Rublëv. Fu una passione fatale, erano entrambi sposati, divorziarono per stare insieme. Mia madre era assistente alla regia ma lasciò tutto diventando la sua segretaria. Ha sempre cercato di sollevarlo dalle questioni pratiche per permettergli di creare in pace".
Lo avete molto protetto. Era una persona fragile?
"Era dotato di una straordinaria sensibilità".
Nei giudizi però sapeva essere tagliente. È vero che Bergman lo deluse?
"Ammirava il suo lavoro. Si incontrarono in Svezia durante le riprese di Sacrificio. Dopo una conferenza, Bergman uscì senza neanche salutarlo. Forse gli aveva dato fastidio che Sacrificio fosse ambientato negli stessi luoghi dei suoi film".
Non risparmiò neanche Solgenitsyn.
"Non le mandava a dire ( ride). Adorava però Bresson, Kurosawa e Mizoguchi. Era amico di Antonioni e Tonino Guerra, con cui lavorò a Nostalghia. Fu lui a regalargli l'amata polaroid. Era libero, diceva sempre quello che pensava. Quando Solgenitsyn stroncò Rublëv ci rimase molto male".
Non accettava critiche?
"Solgenitsyn aveva raccontato di aver preso appunti durante la proiezione, cosa per mio padre inconcepibile. Per lui l'approccio al cinema doveva essere emotivo, mai intellettuale".
Eppure il suo cinema è stato accusato di elitarismo.
"I suoi film riempivano le sale. Conservava le lettere che gli mandavano gli spettatori. Gente semplice, che considerava più aperta alle emozioni, alla sua idea di cinema come atto d'amore, preghiera. Ancora oggi è molto amato. A novembre il Romaeuropa Festival ha presentato il concerto Music for Solaris di Ben Frost e Daniel Bjarnason, con video di Brian Eno e l'orchestra di Santa Cecilia". S'interrompe, indica un tavolo: "Era seduto lì quando ha detto ai suoi amici di essere malato. Aveva invitato a cena Krzysztof Zanussi e Franco Terilli. Fu mia madre a convincerlo a ricoverarsi a Parigi dove c'era l'oncologo Léon Schwartzenberg, marito dell'attrice Marina Vlady".
Fu un periodo molto duro?
"A suo modo bello. Papà non parlava mai di morte, pianificava il futuro, leggeva libri di filosofia russa, tra cui Florenskij e Berdjaev. Ha continuato fino alla fine ad amare la vita".