Aldo Soligno va in Uganda nella primavera del 2014, subito
dopo che il governo di Yoweri Museveni, ha approvato una legge che prevede l’ergastolo
per il “reato di omosessualità” e fino a sette anni di detenzione per chi è
accusato di favoreggiamento (compresi gli avvocati che difendono gli
omosessuali). Già era iniziata la caccia ai “diversi”, con licenza di
perseguitarli, insultarli, e magari linciarli.
Ma Aldo Soligno, non insegue tali
momenti drammatici, non gli interessa scattare immagini choc, ma raccontare la
vita di queste persone che la legge ha separato dal loro mondo, obbligandole
all'isolamento, a chiudersi dentro le loro case, a celarsi alla vista dietro
pesanti tende. Egli si mette emotivamente e visivamente dalla loro parte, e ci
mostra tutta la solitudine e lo sconforto di vite trascorse nella paura,
nell'ansia di essere denunciati, incarcerati per un semplice sospetto, o magari
fatti sparire nel nulla. L’autore scopre che i principali tabloid del paese hanno
sbattuto in prima pagina centinaia di ritratti di veri o presunti omosessuali
sotto al titolo “Impiccateli”: il ritratto diviene uno strumento di persecuzione.
Soligno decide allora di creare una serie di “contro-ritratti” chiedendo agli
attivisti ugandesi, mobilitati contro la legge anti-gay, di posare in un set
buio con una lampada alle spalle, in modo che il loro volto rimanga in ombra,
per evitare il rischio della riconoscibilità e della denuncia. Tali silhouette
ci mostrano volti che si offrono e si nascondono al nostro sguardo, che ci
interpellano e al contempo spariscono, protetti dall’oscurità e circondati da
un’aureola di luce. La forza di simili immagini consiste nel sovvertire la logica
sottesa al ritratto, usandone al contempo le potenzialità: tali ritratti sono
infatti la messa in presenza di una persona che sta di fronte a noi, ma anche
la rappresentazione di una dolorosa impossibilità ad apparire con un volto
visibile e riconoscibile. Colei o colui che viene ritratto è infatti costretto
a nascondersi, e tuttavia ci chiede di poter tornare alla luce.
Le sue immagini
sono un forte atto d’accusa contro la politica discriminatoria del regime
ugandese, ma al contempo divengono simbolo di tutte quelle situazioni politiche
e sociali che impediscono alle persone di mostrarsi come esse sono. Ci parlano
infatti di tutte quelle condizioni di costrizione che ci spingono a nascondere
“diversità”, paure e sofferenze dietro maschere socialmente “vincenti”.
Gigliola Foschi
con il patrocinio di Città Metropolitana di Milano e di Associazione
Centro Astalli - Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati
in collaborazione con Soleterre – strategie di Pace ONLUS
Echo Photojournalism
Si ringraziano Marco Ferri e Giancarlo Fabbi